Perù, paese di leggende - Seconda parte

di Adriana Alarco Zadra

L'organizzazione politica più famosa, sostenuta da un sistema gerarchico, fu quella degli Inca, (XI - XVI secolo), nata, dopo la disgregazione dell'Impero Wari, da una piccola popolazione insediata nella regione di Cuzco. La sua rapida espansione fu possibile grazie a una notevole potenza militare e una capillare organizzazione politico-amministrativa che sottometteva le popolazioni locali.

I miti andini sono molto conosciuti e riproposti in forme diverse, tanto in spagnolo quanto in altre lingue, sopratutto quello della nascita dell'Impero degli Inca, con Manco Capac e Mamma Ocllo.

Assieme all'Inca, nell'Impero del Tahuantinsuyo o "dei quattro confini della terra", era riconosciuto come autorità suprema il Villac Umu, rappresentante della potente casta sacerdotale. Era Cuzco, città sulla Cordigliera delle Ande, centro dell'Impero incaico. Questa civiltà fu ricca di grandi ingegneri e architetti, si trovano tuttora le rovine di templi, fortezze, palazzi e tracce, in diversi paesi sudamericani, di una rete stradale di 20,000 chilometri, lastricata o con gradinate e molte volte affiancata da mura, conosciuta come "Caminos del Inca".

E' proprio la sua struttura sociale che fa dell'Impero degli Inca una civiltà così moderna e funzionale nelle sue idee. Gli ayllu erano le comunità familiari che lavoravano gli appezzamenti di terra donati loro dall'Inca. Queste comunità erano dirette da un Curaca o capo dell'Ayllu.

LEGGENDE DELLE ANDE

IL MAIS CHE CADDE DAL CIELO

Raccontano sull'altipiano di Huanuco che molto tempo fa gli abitanti del luogo avevano tanta abbondanza di cibo che ne sprecavano molto. Non importava loro se la carne bruciava sul fuoco e buttavano nel recinto degli animali i raccolti di verdure e frutti, lasciando i grani nei depositi per lunghi periodi di tempo finché andavano a male e nessuno faceva niente per rimediare, poiché c'era troppo di tutto.

Un giorno il dio Viracocha si arrabbiò molto con gli abitanti delle Ande e inviò tante tempeste che tutte le terre seminate furono spazzate via dalla pioggia e dal vento. La gente pregò e si lamentò con il dio affinchè cessasse di punirli , ma anche se tutti piangevano, rimase ovunque la carestia.

Quando anche gli uccelli cominciarono a indebolirsi per la mancanza di semi e mangime, quelli più forti e coraggiosi s'innalzarono in volo verso l'alto e avvicinandosi al cielo chiesero al dio che inviasse cibo alle popolazioni della terra. Avevano sofferto abbastanza sulle Ande e molti cominciavano a morire di fame.

Viracocha ebbe allora compassione e a ciascun uccello che arrivò al suo regno nei cieli diede un seme di mais che i volatili portarono nel loro becco. Lasciarono cadere i semi di mais sulla terra fertile e da allora l'altopiano si riempì di alimenti inviati dal dio Viracocha per gli abitanti delle Ande.

Quel giorno si festeggia ancora oggi sulle Ande come "il giorno che il mais cadde dal cielo".

IL LAMA CHE ABITA IN CIELO

Anticamente gli abitanti dell'Impero degli Incas riverivano il sole, chiamato Inti in quechua, e la luna, chiamata Killa, come creatori di vita e fonti di energia. Così pure veneravano le stelle. Seguendo le antiche tradizioni incaiche, qualche abitante delle Ande rimane sveglio in certe notti sotto le stelle perché crede che le stelle diano energia alle persone e donino un'anima alle cose.

Nel cielo della Cordigliera delle Ande, dove si erge la città principale dell'Impero degli Incas chiamata Cuzco, si può vedere la costellazione chiamata Yacana o "del lama". Questo lama è gigantesco e cammina percorrendo il fiume che attraversa il cielo (N.d.R. La Via Lattea). Ha due occhi molto brillanti e un collo lungo. Di notte, abbassa la testa fino a terra e beve acqua fresca dalle sorgenti andine.

Una volta all'anno, Yacana sorseggia l'acqua del mare, perché se così non fosse, la terra sarebbe inondata dall'acqua come successe già una volta nei tempi antichi.

Quando scende sulla terra, Yacana passeggia sulle alte cime della Cordigliera. Se gli uomini lo vedono, lo inseguono discretamente e aspettano che s'addormenti per prelevare la sua lana colorata di blu, bianco, nero e marrone chiaro, molto pregiata per la sua sericità e finezza.

Si crede, infatti, che chi ha con sé un po' di lana di Yacana e possiede una coppia di lama ordinari, questi riescono ad avere fino a tremila figli, soltanto se dormono sopra la lana prodigiosa del Lama del Cielo.

Yacana si addormenta sulla Terra quando è stanco. Tuttavia, se sente il pianto del suo piccolo, allora si sveglia e torna di corsa in cielo verso il suo lama. Questo ci conferma i pensieri degli antichi, i quali pensavano che anche le stelle hanno sentimenti.

Ci sono altre costellazioni conosciute e venerate dagli abitanti delle Ande e sono: la Costellazione del Condor formata da tre stelle in linea retta. Vicino si trovano le stelle che formano la Costellazione del Falco. La Costellazione delle Sette Caprette è molto grande. Quando si scorge il gruppo di stelle in mezzo al cielo e brillano vivacemente, si crede che sarà un anno fertile per l'agricoltura. Se invece s'intravedono appena sarà un anno di fame e siccità.

Un altro gruppo di stelle, chiamato Pishcaconqui, forma un cerchio magico nel cielo e si crede che chi lo guarda nelle notti stellate sarà felice in amore.

Così, dunque, tutte le stelle brillanti, anche se non lo fanno per obbligo né per dovere, hanno un specifico ruolo in cielo per aiutare gli uomini.

PUCA HUIRA, IL VENTO ROSSO

Nelle Ande centrali dell'altipiano di Huancavelica, dicono che il vento che soffia nei pomeriggi e alza la polvere nelle miniere di rame e mercurio, è un vento incantato chiamato Puca Huira o Vento Rosso. Quest'aria, inviata dagli Dei, castiga gli oziosi che non vogliono lavorare nei campi e nelle miniere.

La leggenda racconta che due fratelli chiamati Oyoc e Chaygua, figli di una povera vedova, invece di seminare le patate lasciate loro dalla madre come sementi per la raccolta annuale, le cucinarono e le mangiarono.

Tornati in casa dissero alla madre che avevano arato e seminato tutti i campi.

Allora, la madre comprò del mais e lo diede ai figli da seminare. I fratelli pigri fecero un bel fuoco in campagna, tostarono il mais e se lo mangiarono. Poi riferirono alla madre che avevano arato il campo e sparso i semi.

Così, la buona donna fece di tutto perché ai figli non mancasse né da vestire né da mangiare e il giorno filava, lavava, tesseva e cucinava. I figli bugiardi raccontavano di come avevano aperto canali affinché passasse l'acqua per irrigare il loro campo e di come avevano fatto trappole per spaventare i roditori e gli uccelli che si avvicinavano a mangiare i loro semi. Quando arrivò il tempo di raccogliere i frutti di tanta fatica come descrivevano i figli, questi ragazzi svogliati e falsi, per guadagnare tempo, raccontarono alla loro buona madre che il raccolto non era ancora pronto.

Una sera, la madre, disperata perché non aveva più niente da dare da mangiare ai figli e questi si lamentavano, uscì di casa pregando lo Spirito del Vento di portare qualcosa da mangiare per i suoi due figli lavoratori mentre crescevano il mais e le patate che ancora non spuntavano dalla terra. Il vento Puca Huira ascoltò la preghiera della donna, ma dopo aver visto quei due gironzolare con le mani in tasca tutto il tempo, arrabbiato, soffiò tanto forte che riempì i campi di polvere rossa e portò via nell'aria i due indolenti figli della vedova.

Il giorno dopo, quando l'aria diventò pulita, vicino a casa sua la povera donna trovò due colline di terra brulla e la gente dei dintorni le chiamò Chaygua e Oyoc. Ancora oggi nel villaggio la gente dice che quelle colline sono i figli pigri della vedova trasformati così dallo Spirito del Vento Puca Huira.

LA SORGENTE DELL'ETERNA GIOVINEZZA

Viveva in tempi remoti un prode guerriero del grande Impero degli Inca. Possedeva campi e bestiame ricevuti come premio per il coraggio dimostrato in battaglia, e viveva in un rustico fatto di pietre e argilla cotta al sole.

Un giorno, mentre era intento a percorrere i suoi vasti possedimenti, scoprì una grotta seminascosta posta ai piedi di un canalone. Con grande curiosità, penetrò dalla stretta fessura che dava accesso a un luogo fantastico: luminose formazioni di pietra, di tutte le tinte, emergevano da terra come fossero colonne e altre ancora pendevano dall'altissima volta della grotta. Più si addentrava nella penombra, più rimaneva sorpreso dalla meraviglia di quelle composizioni quasi floreali che emanavano una luce fioca e patinata. Nella parte centrale della grotta scorse una sorgente, splendente di luci e colori, che raccoglieva le goccioline distillate delle colonne verticali e le varie acque termali emerse dalle profonde voragini della terra.

Si immerse, senza pensarci due volte, in quell'acqua tiepida, attirato dal sonoro mormorio della sorgente. Quando uscì dall'acqua trovò, al posto dei suoi vestiti di cotone grezzo, una splendida veste ricamata con fili d'argento e la indossò. In un angolo della grotta, contornato da fragilissime colonnine bianche, vide un grande masso di pietra rosa imbandito con le più gustose leccornie. Assaggiò un po' di ogni cosa e quindi, sazio, si addormentò. Passò il tempo, non seppe mai quanto, e svegliatosi scorse al suo fianco una giovane donna vestita di bianco e argento. Al chiarore della fioca luce della grotta, sia la pelle sia i lunghi capelli della giovane gli apparvero verdastri, mentre gli occhi dorati brillavano nella semioscurità.

Il guerriero cercò di parlarle per sapere chi fosse e da dove venisse, ma quella misteriosa creatura si limitò a cantare in un linguaggio a lui sconosciuto e a scivolare danzando fra le colonne, nascondendosi da lui ogni volta che questi tentava di rivolgerle qualche domanda. Rimase con lei parecchio tempo, visto che era molto amabile e gentile nei suoi confronti. Non gli faceva mancare niente, né alimenti né vestiti, e poco alla volta gli fece conoscere l'intera grotta. Un giorno il guerriero sentì la nostalgia delle sue terre e comunicò alla ragazza la sua intenzione di uscire da lì, cosa che intristì molto la strana creatura. Costei preparò degli infusi utilizzando radici e piante, solo da lei conosciute, che dette da bere più volte al guerriero. Questi dimenticò la sua casa, le sue terre, i suoi averi, e tutto quanto esisteva fuori dalla grotta. Dimenticò persino la differenza fra il giorno e la notte. Nei pochi momenti di lucidità, il guerriero percorreva la grotta cercando una via d'uscita, ma la maggior parte del tempo la passava immerso nelle tiepide acque della sorgente, intorpidito.

Un giorno si accorse che anche la sua pelle stava assumendo quella tonalità verde e in quel momento decise di uscire a tutti i costi dalla spelonca incantata. Lui era un uomo d'azione e passare il tempo mangiando, dormendo e in bagni termali non lo soddisfaceva più. Aspettò che la giovane si fosse addormentata e, con molta determinazione, studiò ogni possibile uscita fino a trovare quella giusta, mimetizzata da sterpaglie, arbusti e rami spezzati. Respirò a pieni polmoni l'aria pura e fredda della montagna andina, assaporando la libertà ritrovata.

Non ricordava più la giusta direzione e camminò senza meta per giorni e giorni, attraversando valli e montagne. Un giorno vide da lontano un vecchio rudere diroccato e, avvicinatosi, trovò un vecchio pastore seduto sull'uscio della costruzione, intento a curare un gregge di vigogne e alpaca. Il pastore lo guardò molto sorpreso al sentire le sue domande, e così rispose:

- Molti anni fa, io ero ancora un ragazzino, visse in questa dimora un guerriero con lo stesso nome. Una leggenda racconta che sparì una notte e non fece più ritorno, come se fosse stato inghiottito dalla montagna. Sicuramente lei non era ancora nato, allora, perché è ancora giovane e forte.

Il guerriero rimase perplesso dalle parole del vecchio e pensò che l'unica spiegazione possibile fosse quella di aver trovato la Fonte della Giovinezza. Quelle rovine, poi, avevano un che di familiare e riconobbe la casa come sua, ma era evidentemente abbandonata da lungo tempo. Cercò di convincere l'anziano che era proprio lui il guerriero della leggenda, ma questi non credette alle sue parole: un essere vivente, in special modo un guerriero, non poteva rimanere in una grotta aspettando di diventare immortale come gli spiriti delle montagne. Il pastore seguì la sua logica fino in fondo, come l'esperienza gli aveva insegnato, e consigliò saggiamente al guerriero di dimenticare l'esperienza vissuta.

- Gli uomini - disse - esistono per vivere e per agire e nemmeno per il più coraggioso la vita diventa eterna.

A dispetto di queste sagge parole il giovane si mise nuovamente in cammino, questa volta per ritrovare la grotta e la giovane dai lunghi capelli che così dolcemente l'aveva protetto e accudito. Scalò vette, attraversò valli e cordigliere, assaggiò l'acqua di ogni fonte lungo il cammino, ma per quanto fece non ritrovò mai l'accesso alla grotta misteriosa.

Fu tanta la sua disperazione e tanto il suo dolore che poco tempo dopo morì di tristezza.

I FIGLI DELLA NEVE

Un giorno, un commerciante portava dei tessuti di lana dalle Ande alla costa per cambiarli con tessuti di cotone e alimenti. Dovette passare dalle alte cime vicino alla montagna Ausangate. Sul passo nevicava molto e allora cercò riparo dietro un muro di pietra che faceva parte di una casa diroccata.

Una donna dai capelli bianchi si avvicinò faticosamente in mezzo alla tempesta di neve e lo invitò a entrare nella sua casa. Il commerciante, pieno di gratitudine, entrò ma si rese subito conto che dentro faceva tanto freddo come fuori la casa e non c'era un luogo per riscaldarsi.

- Nasconditi - ordinò la vecchia - perché se i miei figli arrivano e ti trovano qui, ti possono rubare lo spirito.

Allora l'uomo capì che la donna era la Madre Neve e i suoi figli i Venti, le Piogge e la Grandine che rubavano lo spirito ai viaggiatori sprovveduti. Intimorito, si dovette nascondere dietro una roccia, in quanto non c'erano mobili nella stanza, e aspettò che diminuisse il temporale per scappare.

Poco dopo, arrivò il figlio Grandine coperto col poncho e con ghiaccioli fra i capelli.

- Mamma, porto qualcosa da mangiare - disse, e aprì un sacco pieno di patate secche, farina di patate, uova, mais e fave.

- Grandine, figlio mio, metti tutto in un angolo fino a che sarà passata questa tormenta e torneranno i tuoi fratelli dal lavoro. Intanto, vai sulle cime a far grandinare.

Subito dopo arrivarono i quattro Venti con il loro gregge di lama e alpaca. Venivano da diversi punti della cordigliera.

- Figli miei, Nord, Est, Sud e Ovest, andate a soffiare com'è vostro dovere e lasciate gli animali nel recinto che fra poco finirà la tempesta! - ordinò l'anziana.

Ancora, arrivarono i figli Pioggia e Pioggerella portando pesci nelle reti.

- Tornate al vostro lavoro - disse l'anziana - e lasciate i pesci nel pentolone, che presto uscirà il sole, ma dovete ancora far piovere sui campi.

Quando tutti furono usciti, la Madre Neve raccomandò al commerciante:

- Vai subito giù nella valle mentre finisce il temporale, prima che tornino i miei figli e ti rubino lo spirito. Se così fosse, saresti obbligato a lavorare per loro per tutta la tua vita. Vai via di corsa!

Arrivando in valle, il commerciante raccontò ciò che gli era successo e tutti furono d'accordo nel dire che se lui avesse lasciato un dono prima di arrivare alla cima, pregando gli spiriti delle montagne di benedire il suo viaggio, niente gli sarebbe successo e non si sarebbe spaventato a morte con quell'avventura.

Fu così che al ritorno da tutti i suoi viaggi e ogni volta che arrivava vicino a una cima, l'uomo lasciò sul cammino un dono per gli spiriti della montagna. Egli cercò ancora di trovare la vecchia casa diroccata e piena di freddo, per ringraziare l'anziana donna, ma non la vide mai più né trovò il rifugio della Madre Neve e dei suoi figli Vento, Piogge e Grandine sulle Ande desolate.

LA MONTAGNA STREGATA

Nella cordigliera di Huamachuco al nord del Perù raccontano che un giorno la montagna mangiò un pastore. Dicono che questo ragazzo avesse riunito i lama per portarli di ritorno dal pascolo quando uno scappò. Un vecchio lo avvertì:

- Non andare più in là tra quelle cime che sono traditrici e potresti cadere dentro un crepaccio.

Ma il ragazzo, che conosceva quei posti da quando era nato, non diede retta all'anziano e continuò a cercare il suo animale, lanciando pietre con la fionda contro tutto ciò che si muoveva intorno.

Inaspettatamente, saltò fuori un puma da dietro una grande roccia. Il pastore, un po' spaventato, gli tirò con la fionda una pietra che colpì sul muso la fiera. L'animale scappò velocemente, come era venuto, addolorato dal colpo, ma il ragazzo lo perseguitò tra le pietre, avvicinandosi sempre di più alla cima della montagna. Gridando in maniera sguaiata contro il felino che stranamente fuggiva invece di saltargli addosso, non si rese conto di un profondo buco nascosto da due pietre coperte di erbe di ichu e vi ruzzolò dentro. Scivolando tra sabbia e pietrisco, cadde sempre più giù lungo la scarpata.

Spaventato, ma molto sorpreso, constatò che la gola stretta e profonda non era buia ma brillava di una luce sommessa. Sembrava una città con alte colonne colorate che distillavano acqua risuonando come gocce di pioggia.

Era una grotta sotterranea e il ragazzo restò a bocca aperta guardando quel luminoso luogo stregato. Osservò ogni angolo cercando qualcosa che si muovesse in mezzo a tanta meraviglia e finalmente scovò il suo piccolo lama che tremava dietro una roccia verde.

Stanco di esplorare la grotta e non trovando niente da mettere sotto i denti, cercò l'uscita ma non riuscì ad arrampicarsi da dove era caduto, in mancanza di una corda. Disperato, disse al suo lama che se non uscivano presto da quel luogo, sarebbero morti entrambi di fame. Allora il piccolo lama, intuendo il pericolo, si mise a cercare una strada in mezzo a un labirinto di cristalli e pietre brillanti e trovò un passaggio fra le rocce.

Il pastore, affascinato dalla sua avventura, raccontò a tutti nel villaggio quello che gli era successo. Nessuno poteva credere che esistesse una grotta così meravigliosa, soltanto l'anziano che lo aveva ammonito si ricordava che suo nonno aveva visto qualcosa di simile una volta, moltissimi anni prima.

Molte persone del villaggio decisero di cercare intorno per trovare l'entrata alla verde grotta brillante, ma nessuno mai riuscì a scoprire il luogo. Da allora, la montagna Huinca fu chiamata la Montagna Stregata o Montagna Mangia Gente.

L'UOMO CHE DIVENTO' CERBIATTO

In un villaggio delle Ande vivevano delle famiglie molto povere che si sostentavano con i frutti dei loro orti e si coprivano con vestiti fatti della lana di un paio di alpaca che pascolavano nei dintorni. Lavoravano il campo, riscaldavano le capanne con ichu o erba secca dell'altopiano, e crescevano i loro figlioli.

Un giorno arrivò al villaggio un paesano che era partito molti anni prima per fare fortuna. Portava con sé molti lama e alpaca, e si costruì la casa nella piazza principale del paese. Non diceva a nessuno che lui era nato in quel villaggio, perché era diventato molto orgoglioso e si vergognava della sua origine.

Suo fratello andò a trovarlo per salutarlo, però lui non volle riconoscerlo, dimostrando molto disprezzo nei suoi confronti. Non voleva che i vicini sapessero che anche lui era cresciuto in una famiglia bisognosa.

Questo fratello, che era molto povero, andava a raccogliere l'erba llullcha in riva al lago vicino per dare da mangiare al suo lama e un giorno trovò un giovane di passaggio che gli chiese:

- A cosa ti serve quell'erba che raccogli nell'acqua del lago?

- Mi serve per dare da mangiare al mio unico lama, che è giovane e voglio che cresca sano e forte - rispose l 'uomo, senza accorgersi che il giovane era il Misti, lo spirito della montagna.

- Prendi questi fiori di garofano selvatico e mettili intorno al recinto del tuo piccolo lama - disse il giovane. - Vedrai che sorpresa!.

L'uomo fece come indicato e il giorno seguente, aprendo gli occhi, si rese conto che il suo recinto si era riempito di lama e altri animali. Tutti nel villaggio si chiedevano se avesse rubato gli animali al fratello ricco. Qualcuno dei vicini andò a raccontarlo al fratello e questi, vedendo con i propri occhi il recinto del fratello umile pieno di animali, lo accusò subito di essere un ladro.

- Io non ho rubato niente - si difese il fratello bisognoso. - Io sono solo andato al lago a prendere llullcha e il giorno dopo ho trovato questi animali nel recinto.

Il fratello benestante, sentendo il racconto e invidioso della fortuna toccata al parente, andò il giorno dopo al lago a prendere llullcha. Si aspettava di vedere molti animali avvicinarsi al lago a bere l'acqua per poterli rubare, come supponeva avesse fatto suo fratello. Invece, apparve il giovane Misti che ugualmente chiese:

- A cosa ti serve l'erba del lago? E' per darla da mangiare ai tuoi animali?

- A te non dovrebbe importare quello che faccio - rispose il fratello orgoglioso. - Faresti bene a scomparire al più presto, perché puoi spaventare gli animali che vengono ad abbeverarsi su questa riva.

- Prendi questi fiori di garofano selvatico e mettili sul tuo cappello - rispose il Misti senza indispettirsi, e sparì da dove era venuto senza lasciar traccia. L'uomo fece come gli aveva detto il giovane, senza accorgersi che era uno spirito, e decise di aspettare per un po' gli animali che pensava dovessero arrivare al lago a bere e mangiare llullcha, per poi tornare a casa dietro un nuovo gregge di animali.

Intanto, a casa dell'uomo ricco arrivò saltellando un cerbiatto andino chiamato taruca. La moglie e i figli gli corsero dietro e siccome era un pomeriggio ventoso, le sue corna si agganciarono ai rami degli alberi nell'orto. La donna, tutta contenta, lo catturò , lo mise sul fuoco ad arrostire e stese la sua pelle ad asciugare.

Quando andò via il sole, la donna chiese ai figli di andare a prendere la pelle del cerbiatto distesa nel prato in modo che non la portasse via il vento. Ma i figli non trovarono il cuoio dell'animale, bensì il poncho del padre. Pensando che il padre fosse arrivato e avesse preso lui la pelle dell'animale, ritornarono in casa e portarono alla madre il poncho trovato fuori.

Allora in mezzo al fuoco parlò l'arrosto: "Sono io vostro padre!"

Madre e figli si terrorizzarono a sentire queste parole e andarono a nascondersi negli angoli più bui della casa. Finalmente, la donna si avvicinò nuovamente al fuoco e muovendo le ceneri cercò di capire i suoni che venivano fuori dalle scintille. Intese così che il Misti aveva trasformato suo marito in cerbiatto, poiché essendo nato povero e modesto, ora che era arrivato ricco, disprezzava la sua famiglia.

Così fa il Misti, lo spirito della montagna, quando vuole castigare l'orgoglio degli uomini delle Ande.

LA FONTANA DELLE RANE

Raccontano le leggende che al tempo degli Inca, molte giovani e nobili donne, scelte fra le più belle e chiamate ñustas, vivevano nel Palazzo delle Figlie del Sole a Cuzco, città principale dell'Impero. Potevano girare soltanto di giorno perché di notte non era permesso uscire dal loro alloggio. Erano educate per servire la famiglia reale degli Inca e i sacerdoti, dedicandosi ai lavori artigianali. Ricamavano con fili d'oro soffici e delicati tessuti di cotone o lana di vigogna, chiamati cumbi, che servivano da indumenti. Fabbricavano sandali di morbido cuoio e tessevano tappeti e tappezzerie con disegni colorati di animali veri e mitici. Filavano diversi materiali come lana di alpaca e vigogna, fibre vegetali, liane e cotone che tingevano con coloranti vegetali presi da semi e fiori, oppure coloranti animali presi da conchiglie di mare e dalla cocciniglia, piccolo insetto di colore rosso carico che abita sulle piante grasse delle Ande, e anche minerali, provenienti da polvere d'argilla e pietre macinate.

Una giovane ragazza ñusta, il cui nome era Chuqui, che vuole dire "lancia" in lingua quechua, giacché era alta e snella, viveva e lavorava nel Palazzo delle Figlie del Sole. A lei piaceva passeggiare nelle ore di riposo fra le quattro fontane d'acqua dolce e cristallina che c'erano in quel luogo. In queste fontane o "Puquio Sacro" le ragazze si bagnavano, giocavano, lavavano i vestiti e si pettinavano riflettendosi nelle acque.

Le quattro fontane del Puquio Sacro avevano nomi secondo quello che si trovava nei loro dintorni: una era la Fontana del Crescione, per le erbe che vi crescevano attorno, un'altra la Fontana della China per gli alberi magici e medicinali dai quali si estrae il chinino, poi c'era la Fontana delle Onde, perché era molto grande e nei pomeriggi di vento si alzavano piccole onde che si frangevano ai lati, e per ultima, la Fontana delle Rane dove saltellavano i batraci nascondendosi in mezzo alle liane che crescevano dentro.

Una mattina, Chuqui passeggiava intorno alla Fontana delle Rane quando d'improvviso si imbatté in un bel giovane. Siccome non era permesso agli uomini di entrare nel recinto delle Figlie del Sole, la ragazza si sorprese, ma poi, chiacchierando, capì che il giovane si era perso. Lui riferì che si chiamava Acoya e che si era ritrovato fra gli arbusti del luogo e non sapeva come uscirne. Chuqui non poteva portarlo a Palazzo poiché le guardie erano molto severe e lo avrebbero incarcerato subito, tuttavia gli consigliò di nascondersi tra gli alberi, promettendo di portargli del cibo, e così decisero di incontrarsi di nuovo la mattina seguente in quello stesso luogo.

Chuqui tornò a Palazzo quella sera come se niente fosse e Acoya si trasformò nuovamente in ciò che era: una rana. Il batrace, innamorato della fanciulla, decise di aspettare pazientemente l'arrivo della mattina per vederla nuovamente. Trascorsero le settimane e i giovani si incontrarono tutti i giorni presso la Fontana delle Rane, senza che Chuqui indovinasse la vera natura di Acoya. Anche lei si era infatuata del bel giovane e insieme passavano molte ore raccontandosi i loro pensieri, mano nella mano.

Un giorno, una delle guardie del Palazzo si rese conto che Chuqui s'incontrava con un giovanotto in fondo al parco, nel Puquio Sacro, e con altre guardie la inseguì per castigare la sua disubbidienza, dal momento che era proibito alle Figlie del Sole avere qualunque relazione con altre persone all'infuori degli abitanti del Palazzo.

I due giovani, vedendosi scoperti, fuggirono dal luogo quella stessa sera scavalcando il muro di cinta. Gli anziani della località affermano che i vicini videro Chuqui scappare a cavallo della Rana Acoya e che li vedono ancora al calare del sole.

Le leggende riferiscono che quando il dio Sole seppe che una delle sue Figlie aveva disubbidito alla legge, diventò furioso e volle punire i colpevoli. Dall'alto vide la coppia fuggiasca nascosta nella località di Huallabamba, nell'altopiano andino, e li trasformò in due enormi pietre. Una di queste ha la forma di Rana e l'altra la forma di una Lancia. Si distinguono ancora dagli altri massi perché sono bianchi e brillanti, e si scorgono da lontano nelle vicinanze della zona.

IL PAPPAGALLO E IL CONDOR

Un pappagallo pettegolo e vanitoso riposava sotto il sole andino della cordigliera, pensando:

- Non esiste animale più bello di me. Ho stupende piume variopinte e la mia voce è chiara e forte. Penso proprio che il mio destino sia quello di comandare.

Da quel momento si sentì prescelto e decise di mettere in pratica il suo desiderio di potere. Osservò un piccione costruirsi il nido con rametti secchi, e gli disse:

- Costruisci il tuo nido con foglie verdi, avrai un nido più morbido.

Il piccione costruì il suo nido seguendo il consiglio del pappagallo, ma il primo colpo di vento lo spazzò via.

Passò una tartaruga e il pappagallo osservò indisponente:

- Sei uno stupido animale, ti porti appresso la tua casa! Toglitela di dosso, ti sentirai meno affaticata.

La tartaruga obbedì senza fiatare: la sua voce forte e chiara la convinse che il pappagallo sapesse il fatto suo. Quella notte, purtroppo, si mise a piovere e la tartaruga, abituata com'era a essere ben coperta, si ammalò.

Passò una lucertola e il pappagallo ordinò:

- Tagliati la coda, correrai più velocemente!

La lucertola prese una pietra e con un colpo netto si tagliò la coda. Ferita e dolorante andò a trovare le sue compagne in cerca di conforto, ma queste la schernirono e la abbandonarono alla sua sorte.

Un grande condor, che sorvolava in quel momento la foresta, con la sua enorme apertura d'ali coprì per un momento la luce del sole. Il pappagallo irato gridò:

- Come osi togliermi il sole, anche solo per un momento? Non permetterti mai più, io sono il Re del Bosco!

- Perché dici di essere il Re del Bosco? - chiese interdetto il condor, che non aveva mai sentito niente di simile da un così stupido pennuto.

- Perché quando parlo io tutti mi obbediscono, anche a costo di rimanere senza vestito o senza coda. La mia voce è così forte e chiara che nessuno osa contraddirmi.

Il condor osservò impietosito il piccione senza nido, la tartaruga raffreddata, la lucertola dolente, e davanti a questo spettacolo si arrabbiò moltissimo.

- Chi dà cattivi consigli danneggiando i propri simili è ignorante e vanitoso; ma se in più si inorgoglisce per le ingiustizie commesse allora è decisamente crudele e malvagio!

E, detto questo, il condor obbligò il pappagallo vanesio ad allontanarsi dal bosco e a non tornare mai più.

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