Funghi allucinogeni, folclore e la Terra delle Fate

di Mike Jay

traduzione italiana a cura di Gianluca Turconi

Il primo trip causato da funghi e registrato in Gran Bretagna ebbe luogo nel Green Park di Londra il 3 ottobre 1799. Come molte di queste esperienze avvenute prima e in seguito, esso fu un incidente. Un uomo identificato in un successivo rapporto medico come “J. S.” aveva l’abitudine di raccogliere piccoli funghi nel parco durante le mattinate autunnali per poi cucinarli in brodo per la colazione della moglie e della giovane famiglia. Ma in quella particolare mattina, un’ora dopo averli mangiati, tutto cominciò a diventare davvero strano. J. S. notò macchie nere e improvvisi flash di colore interrompere la sua visione; divenne disorientato ed ebbe difficoltà a reggersi in piedi e a muoversi. La sua famiglia si lamentò per crampi allo stomaco e per estremità fredde e intorpidite. Il pensiero di funghi velenosi balenò nella mente dell’uomo che barcollò fino in strada in cerca di aiuto, ma dopo un centinaio di metri si dimenticò dove fosse diretto o perché vi stesse andando e fu ritrovato a vagabondare in stato confusionale.

Una rappresentazione moderna di una fata ne "El Hada del Lirio", dipinto di Luis Ricardo Falero - Immagine in pubblico dominio, fonte Wikimedia Commons

Una rappresentazione moderna di una fata ne "El Hada del Lirio", dipinto di Luis Ricardo Falero.

Per caso un medico di nome Everard Brande stava passando in quella parte della città e fu chiamato per curare J. S. e la sua famiglia. La scena di cui il medico fu testimone fu tanto inusuale che scrisse un articolo pubblicato sul The Medical and Physical Journal alcuni mesi dopo. I sintomi della famiglia crescevano e diminuivano in vertiginose ondate, con le loro pupille dilatate, i loro polsi dal battito anomalo e il loro respiro affannoso, ritornando periodicamente a uno stato di normalità prima di ricadere in una nuova crisi. Tutti erano fissati sulla paura di poter morire, a eccezione del membro più giovane, il figlio di otto anni chiamato “Edward S.”, i cui sintomi erano i più strani di tutti. Aveva mangiato una grande porzione di funghi ed era affetto da attacchi di “immotivata ilarità” che le minacce dei suoi genitori non riuscivano a limitare. Sembrava essere stato trasportato in un altro mondo, da cui ritornava sotto costrizione solo per parlare senza senso: “quando si ridestava da quello stato e lo si interrogava in proposito, lui rispondeva indifferentemente sì oppure no, come a qualunque altra domanda, senza nessuna relazione con ciò che gli veniva chiesto”.

Il dottor Brande diagnosticò la condizione della famiglia come “i deleteri effetti di una specie comune di agarico (fungo) fino a ora non sospettato di essere velenoso”. Oggi, noi possiamo essere più specifici: quella era un’intossicazione da Psilocybe semilanceata, comunemente chiamato liberty cap o più semplicemente “funghetto”. il “fungo magico” che ogni autunno cresce spontaneamente e in grande quantità sulle colline, nelle brughiere, nei terreni comuni, sui campi da golf e da gioco della Gran Bretagna. L’illustratore botanico James Sowerby che stava lavorando sulla sua opera di riferimento Coloured Figures of English Fungi or Mushrooms (1803), interruppe il suo lavoro per visitare J. S. e identificare la specie in questione. L’illustrazione di Sowerby rappresenta in maniera indiscutibile un gruppo di inconfondibili liberty cap, insieme a una specie simile, riconoscibili dalla cappella rotonda come Stropharia. Nella sua nota accompagnatoria, Sowerby enfatizza che si trattava della varietà con la testa appuntita (“dal cappello acuminato”) che “si era quasi rivelata fatale per una povera famiglia di Piccadilly, a Londra, la quale era stata così incauta da stufarne una notevole quantità” per colazione.

Il resoconto di Brande sull’episodio della famiglia di J. S. continuò a essere citato nella letteratura medica vittoriana per tutto il XIX secolo, senza una chiara identificazione del liberty cap come fungo allucinogeno. Il composto allucinogeno che aveva causato il misterioso disordine rimase sconosciuto fino agli anni ‘50 del XX secolo, quando Albert Hoffman, il chimico svizzero che scoprì l’LSD, rivolse la sua attenzione ai funghi allucinogeni del Messico. La psilocibina, cugina chimica dell’LSD, fu finalmente isolata nei funghi nel 1958, sintetizzata in un laboratorio svizzero nel 1959 e identificata nei liberty cap nel 1963.

Durante il XIX secolo, il liberty cap ebbe una differente serie di associazioni non derivate dalle sue proprietà allucinogene, bensì dal suo aspetto distintivo. Il grande autore Samuel Taylor Coleridge sembra essere stato il primo a suggerire il suo nome comune (N.d.T. liberty cap, appunto) in un breve pezzo pubblicato nel 1812 come Omniana, una miscellanea scritta a due mani con Robert Southey. Coleridge fu colpito da quel “fungo comune che rappresenta esattamente il palo e il copricapo della Libertà che pare fornito dalla Natura stessa come appropriato emblema del repubblicanesimo gallico”. Il copricapo della Libertà, anche chiamato berretto frigio, una cuffia a punta associata con il berretto indossato dagli schiavi liberati nell’Impero romano, era divenuto un’icona della libertà politica attraverso i movimenti rivoluzionari del XVII e XVIII secolo. Guglielmo d’Orange lo incluse come simbolo su una moneta coniata per celebrare la sua Gloriosa Rivoluzione nel 1688; l’antimonarchico John Wilkes ce l’ha, montato sul suo palo, nella maligna caricatura del 1763 di William Hogarth. Appare su una medaglia disegnata da Benjamin Franklin per commemorare il 4 luglio 1776 (N.d.T. Giorno d’approvazione della Dichiarazione d’Indipendenza degli USA dalla Gran Bretagna e da allora festa commemorativa dell’evento), sotto la dicitura LIBERTAS AMERICANA, e fu adottato durante la Rivoluzione francese dai sans-culotte come loro caratteristico berretto rosso. Furono queste associazioni, piuttosto che le proprietà psichedeliche di cui Coleridge non sapeva nulla, che spinsero l’autore a celebrarlo come il “fungo Cap of Liberty”, un nome filtrato poi attraverso innumerevoli ristampe di Omniana nella cultura, nel folclore e nella botanica britannica del XIX secolo.

Mentre le proprietà “magiche” del liberty cap parvero passare inosservate, l’idea che i funghi potessero provocare allucinazioni cominciò a diffondersi più largamente in Europa durante il XIX secolo, sebbene collegata a una specie abbastanza diversa di funghi. In parallelo al crescente interesse scientifico nei funghi tossici e allucinogeni, una larga parte del folclore vittoriano legato alle fate collegò i funghi tradizionali e velenosi agli elfi, ai folletti, alle colline cave e all’involontario trasporto di persone fino alla Terra delle Fate, un mondo di mutevoli prospettive agitate da spiriti elementali. La somiglianza di quest’altro mondo con quelli generati dalle piante psichedeliche nelle culture del Nuovo Mondo, dove i funghi contenenti psilocibina erano usati da millenni, è suggestiva. È possibile che la tradizione delle fate vittoriana, dietro un aspetto esteriore innocente, operasse come canale per una tradizione nascosta di conoscenza psichedelica? Furono gli autori di queste fantastiche narrazioni – per esempio Alice nel Paese delle Meraviglie – coscienti dei poteri di certi funghi in grado di portare ignari visitatori in terre incantate? Furono essi, forse, persino scritti dopo esperienze personali di tale tipo?

Il trip della famiglia di J.S. nel 1799 è un utile punto di partenza per ulteriori ricerche. Mostra come i liberty cap crescessero in Gran Bretagna a quel tempo e fossero comuni persino nei parchi di Londra. Inoltre, il trip evidenzia come gli effetti allucinogeni dei funghi fossero insoliti, forse persino inauditi; certamente abbastanza inusuali per un medico londinese da portarli all’attenzione dei suoi dotti colleghi. Allo stesso tempo, comunque, gli accademici e i naturalisti divennero sempre più coscienti del diffuso uso di piante stupefacenti nelle culture non occidentali. Nel 1762 Carl Linnaeus, tassonomista e padre della moderna botanica, compilò la prima lista di piante stupefacenti, una monografia intitolata Inebriantia che raccoglieva una farmacopea globale spaziante dall’Europa (oppio, giusquiamo nero) al Medio Oriente (hashish, tromba degli angeli), Sud America (foglia di coca), Asia (noce di betel) e Pacifico (kava). Lo studio di tali piante stava emergendo dagli studi classici quali l’etnografia, il folclore e la medicina per diventare una materia a sé stante a pieno titolo.

L’interesse nelle culture tradizionali si estese al folclore europeo. Una nuova generazione di raccoglitori del folclore tradizionale, quali i fratelli Grimm, realizzarono che la migrazione delle popolazioni contadine verso le città rischiava di smantellare secoli di storie popolari, canzoni e racconti orali con allarmante rapidità. In Gran Bretagna, Robert Southey fu un prominente raccoglitore di tradizioni popolari in via di scomparsa di cui sollecitò e pubblicò esempi offerti dai suoi stessi lettori. Questa tradizione delle fate vittoriana, come emerse, era permeata da una sensibilità romantica le cui tradizioni rustiche non erano più rurali e arretrate, bensì pittoresche e semi-sacre, in pratica una fuga dalla modernità industriale nell’antica, spesso pagana terra incantata. Questo soggetto prese piede tra scrittori e artisti che, sotto forma d’innocenza, furono capaci di esplorare temi sensuali ed erotici con un’audacia impossibile in generi più realistici e poterono re-immaginare la fangosa e impoverita campagna attraverso la lente delle scene classiche e shakespeariane dei giocosi spiriti naturali. La tradizione di fiori e piante fu attentamente curata e intessuta di fate-fiori e boschi incantati, dove i funghi spuntavano ovunque. Cerchi delle fate ed elfi abitanti in dimore-fungo furono rivisitati attraverso una cultura figurata di temi e decorazioni fino a che divennero emblematici della Terra delle Fate stessa.

Questa attrazione magica segnò un cambiamento rispetto alle precedenti rappresentazioni dei funghi britannici. Negli erbari e nei testi medici a partire dal Rinascimento, essi erano stati tipicamente associati al marciume, ai mucchi di letame e al veleno. La nuova generazione di folcloristi, invece, seguirono Coleridge nell’apprezzarli. Thomas Keightley, la cui opera The Fairy Mythology (1850) esercitò molta influenza sulla tradizione narrativa fiabesca, diede esempi gallesi e gaelici di nomi tradizionali di funghi che evocavano elfi e il rinomato essere fatato Puck. In Irlanda, la parola gergale gaelica per indicare i funghi è “pookies”, che Keightley usò per lo spirito elementale naturale Pooka (da cui Puck); è un termine che persiste ancora oggi nella cultura degli stupefacenti irlandese, sebbene la prova di funghi magici gaelici pre-moderni permanga elusiva. A un certo punto Keightley fa riferimento a “quei piccoli, deliziosi, delicati funghi, con le loro teste coniche, che sono chiamati funghi delle Fate in Irlanda, i quali crescono tanto diffusamente”. Pare stia descrivendo i liberty cap, nonostante Keightley, come Coleridge, si focalizzi sulla loro apparenza fisica e sembra ignaro delle loro proprietà psichedeliche.

A dispetto della loro ubiquità e dell’occasionale e incerta associazione con gli spiriti della Natura, i funghi che divennero il tema distintivo della Terra delle Fate non furono i liberty cap, ma piuttosto lo spettacolare bianco e rosso agarico delle mosche (Amanita muscaria). L’agarico delle mosche è psicoattivo, ma a differenza del liberty cap, che contiene psilocibina in notevoli quantità, contiene un mix di alcaloidi – muscarine, muscimolo, acido ibotenico – che genera un imprevedibile e tossico cocktail di effetti. Questi possono includere debolezza e disorientamento, ipersalivazione, sudorazione, intorpidimento di labbra ed estremità, nausea, contrazioni muscolari, sonno e un vago, spesso retrospettivo senso di consapevolezza liminale e di sogni da sveglio. A dosi minori, nessuno di questi effetti può manifestarsi; a dosi maggiori essi possono portare al coma e, in rare occasioni, alla morte.

Un figurante moderno nei panni di un Berserker vichingo - Immagine rilasciata sotto licenza Creative Commons Attribution-Share Alike 3.0 Unported, fonte Wikimedia Commons, utente Huhu Uet

Un figurante moderno nei panni di un Berserker vichingo. La tradizione vuole che la furia in combattimento di questi guerrieri fosse legata a funghi dai poteri portentosi.

A differenza del liberty cap, l’agarico delle mosche è difficile da ignorare e confondere con altri e la sua tossicità è stata ben riconosciuta per secoli (il suo nome deriva dalla sua abilità nell’uccidere le mosche). Si potrebbe argomentare che questa aura di livida bellezza e pericolosità dovrebbe essere da sola sufficiente a spiegare la sua associazione con l’ultraterreno reame delle Fate. Al medesimo tempo, ancora, i suoi effetti psicotropi divennero maggiormente conosciuti non per la tradizione rurale in Gran Bretagna, ma a causa della scoperta del fatto che erano utilizzati come stupefacenti tra le remote popolazioni della Siberia. Sporadicamente, nel corso del XVIII secolo, gli esploratori svedesi e russi tornarono dalla Siberia con storie di viaggio che parlavano di sciamani, possessione spiritica e auto-avvelenamento con funghi dai colori sgargianti. Ma fu un viaggiatore polacco chiamato Joseph Kopék il primo a scrivere un resoconto di una sua esperienza di prima mano con l’agarico delle mosche, apparso in una pubblicazione del 1837 del suo diario di viaggio.

Intorno al 1797, dopo aver vissuto in Kamchatka per due anni, Kopék si ammalò di febbre e gli fu detto da un abitante locale di un fungo “miracoloso” che l’avrebbe curato. Mangiò mezzo agarico delle mosche e cadde in un vivido sogno febbrile. “Come magnetizzato”, egli fu condotto attraverso “i più attraenti giardini dove solo il piacere e la bellezza parevano regnare”; belle donne vestite in bianco lo nutrirono con frutti, bacche e fiori. Si risvegliò dopo un lungo e rigenerante sonno e, dopo aver preso una seconda e più forte dose del fungo, precipitò di nuovo nel sonno, con la sensazione di un epico viaggio in un altro mondo. Rivisse scene della sua infanzia, rincontrò amici di tutta la sua vita e predisse il futuro tanto a lungo e con tale sicurezza che un sacerdote fu chiamato per esserne testimone. Concluse con una sfida alla scienza: “Se qualcuno può provare che sia gli effetti sia l’influenza del fungo sono inesistenti, allora smetterò di difendere il fungo miracoloso della Kamchatka”.

L’epifania di Kopék da fungo velenoso fu solo una delle molte descrizioni dell’uso dell’agarico delle mosche da parte delle popolazioni siberiane che furono riportate in vari giornali dotti e lavori popolari in tutta Europa nel tardo XVIII e in tutto il XIX secolo. Tali resoconti iniziarono una moda per riesaminare elementi del folclore e della cultura europei e finirono con l’inserire l’intossicazione da agarico delle mosche in strani angoli dei miti e della tradizione. Questa è la fonte della nozione che i Berserker, le truppe d’assalto dei vichinghi dall’ottavo al decimo secolo dopo Cristo, bevessero una pozione a base di agarico delle mosche prima di andare in battaglia e combattere come indemoniati, normalmente riportata non solo tra gli aficionados dei funghi e dei vichinghi, ma anche sui testi di scuola e nelle enciclopedie. Non ci sono tuttavia riferimenti all’agarico delle mosche o a qualsiasi altro stimolante basato su qualche pianta esotica nelle saghe o nell’Edda; l’idea di guerrieri Berserker intossicati da funghi fu suggerita per la prima volta dal professore svedese Samuel Ödman nel suo Tentativo di spiegare la furia Berserker degli antichi guerrieri nordici (1784), una speculazione basata su rapporti del XVIII secolo provenienti dalla Siberia.

Entro la metà del XIX secolo, quindi, l’agarico delle mosche era diventato sinonimo della Terra delle Fate. I funghi erano divenuti, sulla base delle fonti siberiane, come portali verso la terra dei sogni presente nel folclore europeo. Quanto questi viaggi culturali dell’agarico delle mosche siano intrecciati è difficile da stabilire. Molto prima dei racconti siberiani, sia nell’arte sia nella letteratura, i funghi di tutti i tipi erano descritti come parte del Mondo delle Fate. Nel poema della metà del XVII secolo “The Pastime of the Queen of Fairies” scritto da Margaret Cavendish, un fungo serve da tavolo da pranzo per la Regina Mab e, nei dipinti del tardo XVIII secolo di Henry Fuseli e Joshua Reynolds, i funghi sono usati come superfici sulle quali fate, spiriti e simili si radunavano. Tale presenza dei funghi nei mondi soprannaturali potrebbe suggerire una conoscenza nascosta o semi-dimenticata delle proprietà allucinogene dei funghi nella cultura britannica. Comunque, questi funghi non assomigliano all’agarico delle mosche (o a qualunque altro fungo allucinogeno) e, naturalmente, per piccole creature dei boschi la grande copertura di un fungo sarebbe sembrato il mobilio ideale. È solo nell’era vittoriana, successiva ai racconti siberiani, che il fungo allucinogeno diventa in Gran Bretagna il fungo della Terra delle Fate per antonomasia.

Rivolgiamoci ora al collegamento più famoso e frequentemente dibattuto tra funghi, psichedelia e la tradizione sulle Fate: la varietà di funghi e pozioni allucinatorie, e i temi delle mutazioni di forma e dell’alterazione della coscienza in Alice nel Paese delle Meraviglie (1865). Le avventure di Alice rappresentano conoscenza di prima mano dei funghi allucinogeni?

Le scene in questione non potrebbero essere meglio conosciute. Alice, dentro la tana del Bianconiglio, incontra un bruco seduto su un fungo che le dice “con una voce languida e sonnolenta” che il fungo è la chiave per muoversi in quel suo strano viaggio: “un lato ti farà crescere più alta, l’altro lato ti farà diventare più bassa”. Alice prende un pezzo da entrambi i lati del fungo e inizia una serie di vertiginosi cambiamenti di taglia, finendo tra le nuvole prima di imparare come mantenere la sua dimensione normale mangiandone morsi alternati. Attraverso il resto del libro, lei continua a prendere il fungo: all’entrata della casa della Duchessa, nell’avvicinarsi al dominio della Lepre Marzolina e, con climax crescente, prima di entrare nel giardino nascosto con la chiave d’oro.

A partire dagli anni ‘60 del XX secolo questa è stata letta come un’opera iniziatica della letteratura sugli stupefacenti, una guida esoterica all’inno psichedelico “Il Bianconiglio” (1967 – N.d.T. Nella versione originale “White Rabbit”), che fa apparire il viaggio di Alice come un cammino di auto-scoperta dove il datato consiglio dei genitori è trasceso dalla guida ricevuta dall’interno grazie al “nutri la tua testa”. Questa lettura è spesso rigettata dagli studiosi di Lewis Carroll, ma i medicinali e gli inusuali stati di coscienza certamente esercitarono su di lui un profondo fascino e a proposito di essi lesse voracemente. Il suo interesse fu spronato dalla sua salute cagionevole – in particolare dall’insonnia e dalle frequenti emicranie – che curò con rimedi omeopatici, inclusi derivati da piante psicoattive come l’aconito e la belladonna. La sua biblioteca includeva libri sull’omeopatia così come testi che trattavano le droghe psicoattive, compreso l’esauriente compendio Stimulants and Narcotics (1864) di F. E. Anstie. Carroll fu notevolmente intrigato dall’episodio epilettico di uno studente di Oxford al quale fu presente e nel 1857 visitò il St. Bartholomew’s Hospital a Londra per presenziare a un’anestesia effettuata col cloroformio, una procedura innovativa giunta alla pubblica attenzione quattro anni prima quando era stata somministrata alla regina Vittoria durante il parto.

L'ambiguo bruco e Alice - Immagine in pubblico dominio, fonte Wikimedia Commons, utente Liftarn

L'ambiguo bruco e Alice, in una delle illustrazioni originali di John Tenniel realizzate per la prima edizione di Alice nel Paese delle Meraviglie.

Ciononostante, sembra improbabile che i viaggi stupefacenti di Alice debbano qualcosa alle esperienze con le droghe del suo autore. Sebbene Carroll – nella vita quotidiana il reverendo Charles Dodgson – fosse un bevitore moderato e, a giudicare dalla sua biblioteca, contrario alla proibizione dell’alcol, egli ebbe una forte avversione per il fumo di tabacco e scrisse scetticamente nelle sue lettere a proposito della pervasiva presenza negli sciroppi e nei tonici calmanti di potenti narcotici come l’oppio – la “medicina tanto destramente, ma inefficacemente, nascosta nella marmellata della nostra prima infanzia”. Le avventure di Alice, tuttavia, potrebbero avere radici in un’esperienza con funghi psichedelici. L’accademico Michael Carmichael ha dimostrato che, pochi giorni prima di iniziare a scrivere la storia, Carroll fece la sua unica visita alla biblioteca bodleiana di Oxford, dove era stata depositata una copia della raccolta sulle droghe recentemente pubblicata intitolata The Seven Sisters of Sleep (1860) di Mordecai Cooke. La copia bodleiana di questo libro ha ancora la maggior parte delle sue pagine intonse, a eccezione dell’indice e del capitolo sull’agarico delle mosche, intitolato “L’esilio della Siberia”. Carroll fu particolarmente interessato alla Russia: fu l’unico paese che visitò fuori dalla Gran Bretagna. E, come disse Carmichael, Carroll “sarebbe stato subito attratto dal capitolo di Cooke sull’agarico delle mosche che è, come il resto del suo libro, un’importante fonte di folclore sugli stupefacenti familiare alla sua generazione di Vittoriani”. Fa riferimento al resoconto di Everard Brande sulla famiglia di J. S. e raccoglie varie descrizioni siberiane delle esperienze con l’agarico delle mosche, inclusi dettagli che appaiono nelle avventure di Alice. “Impressioni errate di taglie e distanze sono evenienze comuni”. Cooke fa riferimento in questo modo all’agarico delle mosche: “Un vegetale che cresce sulle strade può divenire un formidabile oggetto, grazie al quale, un salto viene ritenuto sufficiente a superare un barile di birra o, allo stesso modo, il tronco caduto di una quercia britannica”.

L’ipotesi è suggestiva, sebbene a distanza di tempo, è impossibile sapere per certo se Carroll lesse la copia bodleiana o qualsiasi altra copia del libro di Cooke. Potrebbe essere che Carroll abbia letto altrove dei resoconti sull’agarico siberiano oppure che abbia attinto semplicemente alle risorse della sua fertile immaginazione. Ma qualche contatto con gli ampiamente riportati casi siberiani sembra molto più probabile dell’idea che Carroll abbia attinto a una nascosta tradizione britannica dell’uso di funghi magici, per non parlare del loro uso da parte dell’autore. Se fosse così, egli non fu né un segreto iniziato all’uso delle droghe né un gentiluomo vittoriano completamente all’oscuro della conoscenza arcana delle stesse droghe. In questo senso, le esperienze ultraterrene di Alice sembrano aleggiare, come molta della letteratura vittoriana sulle fate e di fantasia, su una terra di confine tra mancata conoscenza naif di dette sostanze e riferimenti consapevoli a esse. Oggi noi li leggiamo da un punto di vista differente, uno in cui i funghi magici sono consumati molto più ampiamente rispetto all’era vittoriana o qualunque altra epoca precedente. Nella nostra prospera cultura psichedelica, l’agarico delle mosche si incontra solo ai margini; per contrasto, i funghi contenenti psilocibina sono un fenomeno globale, coltivati e consumati in virtualmente ogni paese della Terra con deviazioni verso la psicoterapia clinica. Oggi il liberty cap è un emblema della nuova lotta politica: il diritto alla “libertà cognitiva”, la libera e legale alterazione della nostra coscienza.

Notizie sull'autore

Mike Jay ha scritto estensivamente di storia scientifica e medica e contribuisce regolarmente alla London Review of Books e al Wall Street Journal. Il suo ultimo libro è Psychonauts: Drugs and the Making of the Modern Mind, mentre tra i suoi precedenti libri sulla storia delle droghe si deve citare Mescaline, High Society, and The Atmosphere of Heaven.

Licenza del testo e altre informazioni di copyright

Il testo è rilasciato sotto licenza Creative Commons Attribution 4.0 International, © Mike Jay. Traduzione italiana © 2023, Gianluca Turconi.

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