Il massacro di Lindisfarne

di Giuseppe Pastore

Esclusiva! Storie vichinghe, narrativa d'avventura storica della scrittrice Jennie Hall. Leggi dettagli >>

Il sole ancora basso, nubi bianche a ovest, il vento che alzava sabbia dalla spiaggia.
Il venti di giugno, Anno Domini 793, faceva ancora freddo sull'isola di Lindisfarne.
Frate Eraldo guardava il cielo, mentre un fiume rosso gli nasceva dal petto e si piegava a baciare la terra su cui giaceva. I suoi occhi velati fissarono un volto che sorrideva sotto una lunga chioma bionda. Un sorriso perverso.
Che volto ha il male?
Frate Eraldo se l'era chiesto più volte. Alle tante risposte che aveva trovato, ne avrebbe aggiunta un'altra.
L'ultima.
Il vichingo gli affondò di nuovo la spada nel torace.
Un gorgoglio di sangue dalla bocca, e il cuore del monaco cessò di battere.

- Ammazzateli tutti! Non deve restarne vivo nemmeno uno.
Olaf "il Sanguinario" scendeva velocemente le scale della cripta. Alle sue spalle sentiva l'aria scossa da urla esaltate e ridicoli lamenti. Davanti agli occhi, immagini familiari di distruzione e massacri. Lampi di sangue rosso e caldo, carni squarciate, profumi di morte.
Mentre inseguiva la sua preda giù per i gradini, riusciva a vedere ciò che accadeva in ogni angolo del monastero. Era accanto a ciascuno dei suoi uomini, e assieme a loro godeva mentre i monaci agonizzavano e si dibattevano, come stupidi pesci nelle mani di pescatori affamati.
La voglia di sterminio gli bruciava nel petto.

La scalinata si avviluppava nell'oscurità.
Stretta tra muri irregolari.
Schiacciata da un soffitto troppo basso.
I passi di frate Giacomo battevano un ritmo ossessivo sulle sue spire di pietra. L'eco della sua corsa ansimante rimbalzava nel budello come un urlo claustrofobico.
La fiamma della torcia ritagliò una porzione di luce ruvida nell'aria gonfia di muffa e di putrefazione.
Frate Giacomo correva. Il vichingo gli era sempre più vicino.
- Dio mio, aiutami! - pensò il monaco, interrompendo un Padre Nostro affannato.
La porta del sotterraneo diventava a ogni istante più grande.
Entrate per la porta stretta, perché larga è la porta e spaziosa la via che conduce alla perdizione, e molti sono quelli che entrano per essa. Quanto stretta è la porta e angusta la via che conduce alla vita, e pochi sono quelli che la trovano.1
Frate Giacomo zittì la voce nel suo cuore. Pochi gradini ancora e sarebbe stato salvo.
Sull'ultimo però inciampò. E cadde.
Si rialzò goffamente. La tonaca strappata, un ginocchio sbucciato e un'opprimente paura di morire. Sentiva la furia selvaggia del vichingo sopraggiungere alle sue spalle, una presa infuocata ai polmoni che gli mozzava il respiro. Non si voltò. La salvezza era dinnanzi a sé, doveva concentrarsi su di essa, non pensare ad altro. Raggiunse la porta.
Armeggiò con la chiave.
A ogni tentativo sbagliato la toppa pareva restringersi un po' di più.
La cruna dell'ago.
E poi, finalmente, la chiave girò nella serratura.
Frate Giacomo spinse il portone e implorò perdono.

Il Mare del Nord era mosso da una brezza ostinata. Il vento rubava minuscole gocce d'acqua alle onde, per poi lasciarle ricadere come un'ombra umida e incorporea.
Frate Agostino stava a prua, sferzato dalle raffiche che si infilavano sotto i suoi abiti con le loro gelide dita, e intanto pensava al regno di Etelredo di Northumbria ormai alle sue spalle e al suo borioso re, più bravo a maneggiar coppe di sidro che a governare il suo popolo indigente. Era contento d'aver lasciato quella corte di presunti guerrieri ubriaconi e vanagloriosi. Meglio starsene al convento coi suoi confratelli, si disse, un attimo prima che una voce concitata gli schiaffeggiasse l'udito. - Fumo a Lindisfarne!
Riaprì gli occhi e vide un filo nero salire dall'isola verso il cielo. Soffocando un gemito, sperò che non venisse dal monastero.
Una mano ghiacciata gli ghermì il cuore e gli sussurrò il contrario.

Frate Giacomo entrò nella cripta.
Non provò neanche a richiudersi la porta alle spalle. Proseguì, pregando e piangendo. Sentiva un soffio putrido aleggiargli nel petto, una cancrena dell'animo che oscurava lentamente la luce della fede. Che cosa stava facendo, si chiese disperato, mentre dalla tenebra che si richiudeva dietro di lui veniva il respiro sincopato del vichingo. Avrebbe dovuto arrestare la propria corsa, mettersi nelle mani salde del Signore, e invece cercava scampo alla morte col proposito di donarne a sua volta. La paura lo costringeva a farlo, la sua natura umana, l'istinto di sopravvivenza. Ma sapeva che stava barattando la salvezza del corpo con la dannazione dell'anima.
- Perdonami, Padre - pensò, avvicinandosi alla cella sotterranea.

Olaf vide il monaco aprire una seconda porta. La fiamma tremula della torcia si inoltrò nel varco, ma non si allontanò. Le sue dita rosse e gialle continuarono ad artigliare il buio, ad allungare veli di luce sui muri di pietra e sul pavimento costellato di frammenti di ossa. Le seguì, sempre più affamato di sangue. Pezzi di scheletri e crani polverosi risposero al suo passaggio con scricchiolii lugubri, un susseguirsi di taglienti urla di morte. Arrivò alla cella e vi entrò di corsa.
Frate Giacomo era in ginocchio, un crocefisso stretto tra le dita sudate e tremanti, la voce lanciata in un tragitto di preghiere disperate.
Olaf sorrise, e fece un passo in avanti. Si preparò all'estasi di un nuovo assassinio.
Un movimento alla sua destra però lo bloccò.

Ultor s'alzò lentamente dal suo letto di pietra.
I capelli biondi scivolarono lungo il volto arcigno, le labbra contratte fremettero. Gli occhi si aprirono. Bianchi e immobili, striati di fili sanguigni che v'intessevano ragnatele rosse.
Guardò il vichingo col suo sguardo lattescente, e ringhiò, scoprendo denti piccolissimi, cunei affilati come lame d'osso. Il suo corpo nudo si tese sotto la pressione di muscoli ferini, mentre dietro di lui le ali nere si spiegavano ad abbracciare la paura e la speranza che pulsavano nella piccola cella.
L'angelo vendicatore era stato risvegliato.

Un fascio di nervi e vene ribollenti in una statua di pietra: Olaf si sentiva paralizzato. Nella sua mente, però, saettavano bagliori di ricordi soffocati dal tempo. Guardò Ultor, e sorrise. Poi la leggera increspatura delle sue labbra si trasformò in una risata cavernosa, possente. Divertita. Gli occhi ruotarono, le iridi scomparvero dietro un muro bianco graffiato di rivoli rossi. La pelliccia che indossava si lacerò. Nere, come un manto fatto di anime blasfeme, le sue ali rividero la luce.
- Fratello - disse, nella lingua dei demoni.
- Fratello - gli rispose Ultor, poggiandogli una mano contro il petto.
Dopo secoli di nuovo insieme, pensarono entrambi.
Si fissarono l'un l'altro con uno sguardo cieco, poi insieme si volsero verso frate Giacomo.
I loro denti appuntiti mandavano bagliori mortali.

Lindisfarne era ormai a meno d'un miglio.
Frate Agostino si lanciò nella prima scialuppa che fu calata dalla nave. Nel cuore, un'assordante ressa di emozioni. Il cadavere di frate Eraldo si delineò poco alla volta dinnanzi a lui. Le onde schiumavano sul suo corpo esanime, lo spingevano verso la terraferma, prima d'abbandonarlo a una risacca vorace che lottava per riportarlo in mare.
Frate Agostino lo trascinò definitivamente a riva e gli chiuse gli occhi ancora sbarrati.
Uno dei marinai puntò il dito verso la macchia verde del bosco. - Il fumo viene dal monastero.
Sei uomini presero a correre verso le rovine nascoste dalla vegetazione.
- Aspettami, fratello Eraldo. Tornerò presto. - Frate Agostino represse una lacrima e li seguì.

Morte e distruzione ovunque. I contadini accorsi dalle vicine campagne si muovevano come ombre nel chiostro e nella cappella, tenuti in piedi dalla debole speranza di trovare qualche frate ancora in vita. Le donne sostavano con sguardo vuoto dinnanzi alla porta del convento, alcune di loro piangevano, molte pregavano. Una vecchia urlava e chiedeva al Signore quale peccato avessero commesso per meritare una simile punizione.
Frate Agostino si fece largo tra i volti smarriti e le mani callose. Entrò nella chiesa, curvo sotto il peso di una tristezza senza confini e di un senso di colpa che gli corrodeva l'animo. Avrebbe dovuto essere là, assieme ai suoi confratelli, ad affrontare il Male che su di loro s'era abbattuto. Perché s'era salvato? Che ruolo aveva voluto il Padre per lui?
Il crocifisso alle spalle dell'altare era stato spezzato e gettato a terra, il tabernacolo rovesciato in un sottile letto d'ostie. Frate Agostino vide i corpi di frate Giovanni e frate Simone giacere quasi intrecciati, come se ciascuno dei due avesse voluto fare da scudo all'altro. Poco più in là, la testa recisa di frate Marco sembrava tentare disperatamente di ricongiungersi al proprio corpo nuotando in un lago di sangue. Di frate Giacomo non c'era traccia.
Il chiusino che portava alla cripta però era aperto. Frate Agostino se n'accorse. Dentro di sé, sentì la speranza rinascere, poi il timore prese il sopravvento e un nome si formò a lettere di fuoco nella sua mente.
Ultor.
Scese le scale di corsa, rischiando più volte d'inciampare.
La porta della cella era aperta.
Trattenne il fiato, entrò.
Vide il cadavere dilaniato di frate Giacomo. Di Ultor nessuna traccia.
- Signore Iddio, abbi pietà di noi - pensò, prima di crollare in ginocchio.

Quella notte, frate Agostino insistette per dormire nelle rovine del monastero, nonostante i numerosi inviti dei contadini di Lindisfarne ad accettare la loro ospitalità. Quando finalmente fu da solo, barricato nella sua misera cella, accese un piccolo lume e iniziò a scrivere una lettera. L'Arcivescovo di Canterbury doveva sapere della fuga dell'Angelo Vendicatore dalle segrete del convento in cui era stato tenuto nascosto per secoli.
Guardò la luna, con gli occhi umidi e la mente affollata di pensieri e ricordi dolorosi, poi si dispose a cominciare. "Sua Eminenza" scrisse, prima che la porta della sua stanzetta fosse divelta dai cardini.
Si girò. Scoprì i quattro occhi bianchi che lo fissavano.
Si fece il segno della croce.
Assieme a lui, si spense la memoria di ciò che davvero accadde quel giorno a Lindisfarne.

L'opera è stata finalista all'edizione 2004 del Premio Lovecraft per la narrativa fantastica

Note

1 - Vangelo di San Matteo 7,13.

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