Torno a casa, sbatto la porta. Tolgo la camicia e la sbatto sul divano, tolgo le scarpe e le sbatto nell'angolo. Poi, giusto per gradire, vado in balcone e sbatto pure la portafinestra.

Sbattere. Avrei proprio voglia di sbattere, ben altro che due porte e qualche indumento. La testa al muro, magari. O quella puttana della mia vicina, che gira con gli shorts che le lasciano scoperto il culo e magari ha pure il coraggio di lamentarsi se un giorno o l'altro qualcuno la stupra nel parco. Sbattere. Sbattersene i coglioni.

Con un sospiro mi siedo sulla vecchia sdraio scolorita del balcone. In questi momenti mi chiedo perché, oh Dio perché, ho smesso di fumare? E non dico le sigarette, che più che un po' di nicotina non ti danno, ma quelle belle canne unte e sudice di fumo, quegli spinelli carichi di nero marocchino o, meglio ancora, di erba da far girare la testa più delle chiappe della mia vicina, dove sono finiti? Una vita sana ti regala più anni da passare accanto a chi ami, per questo ho smesso, adesso me lo ricordo. Anni. Che cazzo me ne faccio degli anni, non so nemmeno che fare di una singola serata. Sono a casa solo, con il pelo della pancia che sbuca da sopra la cintura e con la voglia di drogarmi, mentre vegeto dietro i gerani sul balcone, le scarpe buttate in un angolo del soggiorno e la camicia sul divano, scazzato, incazzato, con due lavatrici da fare e qualche avanzo nel frigo che per magia forse più tardi si trasformerà in una cena. Sono il ritratto della sfiga, che me ne faccio di altri anni di merda da passare in questo posto di merda?

E come per magia, tra la polvere delle mattonelle rosse del balcone noto qualcosa. Avrei giurato non ci fosse prima, ma forse è stato un riflesso del sole ad attirarvi la mia attenzione solo ora. Cos'è? Perché luccica? Una monetina? No, troppo grosso, troppo allungato. Sembra quasi una L. Sembra...

Alle mie spalle, la porta finestra si apre e un vecchio male in arnese mi raggiunge sul balcone.

- E tu chi cazzo sei? - gli grido. - Come ci sei entrato in casa mia? Che cazzo vuoi?

Mi alzo dalla sdraio e mi avvicino minaccioso, pronto a spaccargli la faccia a questo novantenne zingaro bastardo che sicuro mi vuole fottere televisore e dvd.

Lui sorride bonario e scuote la testa in segno di pacato diniego.

- Calma, calma - mi dice con una voce che nelle fiabe hanno solo i vecchi re travestiti da mendicanti. - Non sono qui per farti del male né per rubarti nulla.

Non senza perplessità e con innumerevoli sospetti, mi concedo tuttavia un momento per osservarlo meglio. Non ci capisco niente, ma mi assicuro innanzitutto che non abbia coltelli o altre armi in mano. Non ne ha e dagli abiti non sembra neppure lo zingaro per cui lo avevo preso: veste un completo di lino chiaro, un po' spiegazzato ma pulito, con un bel cappello coordinato e delle scarpe impolverate ma dignitose. Nell'insieme un vecchio dall'aria rassicurante, che senza un motivo plausibile si trova in casa mia. Tutto quel che riesco a fare è rimettermi a sedere sulla sdraio. Lui mi si mette di fronte e continua a sorridere bonario.

- Dimmi Frank... Ti dispiace se ti chiamo Frank? No, vero? Bene. Allora, dimmi Frank, mi hai per caso chiamato?

Il suo modo di parlare ha una cadenza strana, quasi fuori tempo all'inizio, ma irresistibilmente affascinante, come se ogni sua frase calamitasse l'attenzione dritta sulle sue labbra secche.

- N... no - riesco a dire come un ebete, a bocca quasi spalancata.

- Sei sicuro Frank? - mi chiede con un mezzo sorriso tra la derisione e la complicità. - Perché, a dire il vero, ti ho sentito poco fa. Ti agitavi come un dannato alla ricerca di guai, mio caro amico. Mi sbaglio?

Mi chiedo per un momento se non sia un'allucinazione, ma capisco subito che non c'è modo di saperlo. Ho parlato ad alta voce? Ho lasciato che qualcuno sentisse le mie considerazioni sulla vicina o le mie voglie da adolescente di uno spinello? Non mi pare. Eppure...

- Chi sei? - chiedo di nuovo.

E lui risponde: - Chiamami Jin.

Jin prende una sedia dalla cucina.

Prego!, penso, fai come fossi a casa tua sconosciuto del cazzo, tocca la mia roba, maneggia ciò che vuoi!

Ma non dico niente e me ne sto seduto a guardarlo tirarsi una sedia fino accanto alla mia sdraio finché ricomincia a parlare. E' la sua voce, realizzo come in sogno. E' la sua voce che mi ha ipnotizzato.

- Vedi, Frank - riprende lui - tu hai una bella vita. Una bella moglie, un bel bambino. Hai anche un bel lavoro, sei d'accordo? Queste cose, Frank, sono doni del cielo, più preziose di ogni altra, uno deve meritarsele. Non so se mi spiego... Vedrò di chiarire meglio: quando ti vengono concesse cose importanti come queste, come è successo a te, tutto questo ben di dio a Dio prima o poi bisogna ripagarlo. Come fosse un prestito. Mi segui, Frank?

Sembra stia parlando con un ragazzino ritardato e proprio un ritardato io mi sento. Annuisco come potrebbe annuire un mulo e ritorno ad ascoltare.

- Bene Frank, ora forse il mio aspetto non lo sottolinea, ma io sono un angelo. O un diavolo, a seconda di come preferisci. Non abbiamo una divisione così netta tra di noi, scegli tu come considerarmi. Fatto sta, mio buon amico - e qui appoggia i gomiti alle ginocchia e intreccia le dita sporgendosi in avanti, proprio come farebbe un buon padre in un vecchio film degli anni '50 - che sul ben di dio che Dio ti ha dato, tu ci hai appena sputato sopra con tutti i crismi. Oh, a proposito, vuoi una sigaretta?

Faccio segno di si. Ho smesso da dieci anni, ma faccio segno di sì e me la faccio accendere. Una Marlboro rossa. Una fottutissima Marlboro rossa che non assaggio da due lustri, cristo che buona! Un tiro come un orgasmo. Per un secondo non esiste più nulla oltre al piacere di rispolverare una vecchia dipendenza mai del tutto morta. Il fumo uccide, ma mio dio, come lo fa bene!

Poi, dopo qualche istante, rifletto.

Cosa ho fatto esattamente? Su cosa ho sputato secondo questo... essere?

Ho avuto una pessima giornata, ho fame, sono stanco, sono nervoso. Volevo solo tornare a casa e starmene in pace nella tranquillità del mio soggiorno o nella penombra dello studio, ma poi aveva chiamato lei.

Amore, faccio tardi in ufficio, c'è stato un contrattempo, ci vediamo per le dieci.

Per le dieci. Puttana merda, per le dieci! Niente cena decente, nessun volto amico ad accogliermi quando apro la porta e il bambino da lavare e nutrire appena rientra dagli allenamenti di calcio. Merda!

Mi sono sentito un cane abbandonato, trascurato come i gerani rinsecchiti del balcone e mi sono arrabbiato come un ragazzino di tre anni che fa i capricci. Forse perché ho un po' paura che quel contrattempo al lavoro sia in realtà un collega più giovane e meno sfatto di me o forse solo perché non voglio badare al bambino dopo una giornata pesante. Forse sono solo esasperato dalla metro e dal tram affollato, fatto sta che ho messo il broncio, ho sbattuto la porta e ho detto cattiverie su gente che nemmeno conosco. Perché, diciamocelo, a parte guardarle il culo qualche volta, io la vicina non so neppure come si chiama, che vuoi che ne sappia dei suoi costumi e della sua moralità?

Sono stato un ragazzino immaturo, forse ho avuto un momento di piccolo isterismo domestico, ma che cazzo, se ne hanno a milioni ogni giorno in tutto il mondo, non ho fatto male a nessuno e non ho compromesso nulla, che diavolo vuole questo stronzo inviato dal cielo o dall'inferno? Vada a far finire una guerra, a fare il culo a un terrorista, a punire un pedofilo o un ladro o uno stronzo che ruba la pensione alle vecchie all'uscita della posta. Che cazzo vuole da me, uomo medio con una media incazzatura di mezza estate?

Mi sono convinto. Lo posso convincere.

Parliamone.

- Ehi Jin, amico - gli dico con un sorriso indulgente con cui mi autoconfesso, autorimprovero e autoperdono. - E' stata una giornataccia. Dover preparare la cena e badare al moccioso, te lo confesso, proprio non ci voleva. Mi ha proprio fatto girare le palle questa sorpresina inattesa. Ma sai, in fondo li amo lui e mia moglie. Mi lamento, ma alla fine lo faccio volentieri... Che vuoi, a volte brontolo un po' troppo, sarà che divento vecchio, ma in fondo...

- Eh, no, mio caro amico - mi interrompe in tono non più così bonario. - Eh no. Troppo facile.

E mentre lo dice, si alza dalla sedia e lentamente si sposta alla mia destra. Verso quella cosa luminosa che avevo visto a terra.

Stranamente il suo atteggiamento è cambiato all'improvviso, non sembra più un rassicurante padre di famiglia anni '50, né un paziente maestro di sostegno. Adesso ricorda più che altro un picciotto della mafia. Con un gesto agile, non dimostra più tutti quegli anni che aveva all'inizio, si china a raccogliere l'oggetto e con aria gentile lo allunga verso di me, appoggiato sul palmo della mano rivolto in alto, con la delicatezza di un gioielliere che mostra un bel diamante. E' un rasoio.

Pur senza capire chiaramente, lo prendo e me lo rigiro tra le mani. E' il rasoio di mio nonno, ereditato e dimenticato in chissà quale cassetto del mobile del bagno, sostituito dal mille volte più comodo e veloce rasoio elettrico tri-lama. Che storia è questa?

Guardo Jin con aria ebete e chiedo: - E con questo, che cazzo ci faccio, Jin?

Lui sorride, quel suo strano sorriso tra la presa per il culo e la complicità, e risponde sereno: - Ti ci tagli la gola, Frank.

Prima sento il sangue che mi si gela nelle vene, subito dopo mi girano i coglioni.

- Che minchia significa ti ci tagli la gola? Poi chi cazzo è Frank? Io mi chiamo Giulio, idiota! - gli faccio notare per la prima volta, come se non mi fosse davvero importato in precedenza con quale nome mi avesse chiamato. - E sono il proprietario dell'appartamento dove ti sei introdotto senza invito! Quindi smettiamola con le cazzate, ho da fare e ho caldo e non ho più voglia di starti a sentire! Porta le tue chiappe da un altra parte, muoviti!

Grido.

Un po' perché sono davvero furioso, un po' perché spero che la vicina oltre ad avere un bel culo abbia anche un buon udito e chiami i carabinieri.

Ma nessuno sembra notarmi e anche su Jin la mia sfuriata non ha avuto l'effetto desiderato. Lo vedo sogghignare, poi sorridere più apertamente, infine lasciarsi andare a una sonora risata dal retrogusto un po' metallico.

- Tu non hai capito un cazzo, Frank - mi dice quando il riso si placa. - Qui ormai tu non conti più niente. Tra qualche minuto, che tu lo voglia o no, ti sarai suicidato e starai qui a gocciolare sangue sulle mattonelle come un porco scannato. Quindi non ti agitare, eh amico? Prendi il rasoio e tagliati la gola, senza troppe storie

- Vaffanculo!- gli grido, alzandomi in piedi.

Sono pronto a saltargli addosso e tramortirlo di mazzate, una gioventù in periferia sarà pure servita a qualcosa, oltre ad imparare a spacciare e attaccare i fili per mettere in moto senza chiave, ma Dio sa come, è proprio il caso di dirlo, mi ritrovo seduto.

- No, no, no, mio caro amico - dice il mio angelo-diavolo sempre meno vecchio e sempre più minaccioso. Tu continui a non capire. Devi tagliarti la gola, non perdere tempo in smancerie. Questa sera in programma ne ho altri quattro come te, Frank. Non farmi fare tardi amico, sii buono e usa quel rasoio, avanti. E, oh, a proposito! Visto che me lo hai chiesto, scusa se ti chiamo Frank, ma se dovessi impararmi tutti i vostri nomi impazzirei in qualche giorno. Per me siete tutti Frank, tutti poveri disgraziati che fanno parte del lavoro. Senza offesa, mi raccomando.

Un brivido mi corre per la schiena. Non ho mai pensato ad ammazzarmi. Probabilmente perché quando ti impegni tanto a restare vivo in un sobborgo di lotte tra bande e furti d'auto sarebbe come darsi la zappa sui coglioni. Oppure perché dopo aver rosicchiato tante teste e leccato tanti culi per trovare un cazzo di lavoro decente, la voglia di vivere ti viene anche solo per ripicca. O magari anche perché in fondo la sera, quando ritorni da tua moglie e da tuo figlio, nonostante il mutuo, le rate dei mobili e della macchina e l'antenna che ogni volta che c'è una partita di Champions si rompe, comunque alla tua famiglia vuoi bene e sei contento di essere vivo e avere un po' di tempo per stare vicino a loro.

- Ehi senti, Frank - mi interrompe bruscamente Jin che ormai, è evidente, mi legge il pensiero senza vergogna. - Qui non possiamo far notte, sai? La tua famiglia la ami tanto? Bene, non dovevi sputarci sopra. E' un dono del cielo, amico mio, dovevi capirlo prima, te l'ho detto santiddio! Ora è tardi, Dio s'è offeso e se la riprende.

Prende fiato, giusto quel tanto che gli serve per continuare senza che io riesca a intrufolarmi nel discorso: - Capita ogni tanto, mica sempre, non credere. Ci sono quelli che tradiscono la moglie e la passano liscia, quelli che abbandonano i figli e non succede niente... Ma che ci vuoi fare? E' un po' come vincere la lotteria al contrario: ogni tanto il Signore se la prende e bisogna stare zitti e fare come dice lui. Sei l'esempio, la dimostrazione, il memento. Ti puoi sentire orgoglioso se serve di consolazione.

Quindi su, dai, ammazzati senza troppe storie.

Ma io non ho intenzione di ammazzarmi così, giusto perché me lo chiede lui.

- Ammazzami tu, se proprio ci tieni! Oppure obbligami ad ammazzarmi come mi hai obbligato a starmene seduto. Io non ne ho alcuna intenzione e me ne fotto di chi ti manda, Dio o diavolo che sia, quindi se mi vuoi morto ti devi sporcare le mani. Ipnotizzami, legami, fa' quel che vuoi, ma la soddisfazione di suicidarmi, non te la do, stronzo!

Io ansimo, lui sospira.

Poi si rimette a sedere con i gomiti sulle ginocchia e le mani incrociate, la stessa posizione del padre in bianco e nero di prima, questa volta però rassicurante quanto Norman Bates.

- Vedi, Frank - prende a spiegare come se ripetesse un storia già trita e ritrita che avesse dovuto esporre milioni di volte - il problema è il libero arbitrio. Non posso ucciderti o costringerti al suicidio, perché ti toglierei la facoltà di scelta. Non si può, capisci amico, il capo si arrabbierebbe tantissimo. Lui ne fa un vanto della vostra libertà, del vostro libero arbitrio. Una questione di immagine, se vuoi, o una gran rottura di palle se ti ci scontri di continuo come accade a me, ma comunque importante. Quindi siamo alla scena madre che di solito mi tocca recitare con i recalcitranti attaccati alla vita come sei tu. Ecco, ti propongo una scelta: tu hai disprezzato la famiglia che Dio ti ha donato, così ora la devi perdere, a te decidere come. O ti ammazzi tu oppure mi dici che no, non lo fai, e quindi mi tocca ammazzare la tua famiglia. Che fai? Te la tagli la gola o no?

Rimango di sasso.

Magari un altro al mio posto si metterebbe a piangere o si arrabbierebbe, qualcuno supplicherebbe pure, che ne so. Ma io in gioventù sono stato, tra le altre cose, anche un buon giocatore di poker, e ho imparato a mantenere il viso di ghiaccio anche quando cambiavo un full e non mi saliva più di una doppia coppia. Per dirla con eleganza, ho imparato a non far vedere che fa male anche quando la prendo nel culo. In un certo senso è un gioco che prepara alla vita, il poker. Avrei voluto insegnarlo a mio figlio. Maledetta lista delle cose da fare mai fatte.

Mi volto verso Jin e lo vedo con espressione annoiata, mentre segue il corso dei miei ultimi pensieri. Deve averne sentiti milioni tutti uguali, di gente che si accorge solo all'ultimo momento di quanto sia bello ciò che possiede, di quanto sentirà la mancanza di ciò che riteneva noioso e ordinario, di come capisca di amare qualcuno solo al momento di lasciarlo.

Sospiro a mia volta e mi metto più comodo nella sdraio. Mi troverà mio figlio, penso, rientrando a casa dagli allenamenti. Una bella fregatura per un ragazzino, beccarsi una scena del genere in piena preadolescenza, ma tra i due mali si sceglie sempre il minore, almeno questo nella vita l'ho imparato bene.

Stringo le dita sudaticce sul manico del rasoio, appoggio la schiena alla tela della sedia, faccio un bel respiro.

L'ultimo, bel respiro.

Un taglio netto e sento una macchia di caldo allargarsi sul collo e poi sul petto.

Ho il tempo di rendermi conto che sto morendo, di sentire il dolore crescere e farsi più intenso, i brividi corrermi sempre più forti per le braccia e le gambe, il freddo aumentare e il giorno diventare più scuro, in un innaturale, prematuro tramonto.

Probabilmente cado a terra con la faccia in avanti, le guance molli sulle mattonelle, un filo di bava che cola tra i peli della barba della sera. Ormai è buio, da qualche parte arriva l'ultimo sprazzo del profumo dei gerani, morti pure loro, rinsecchiti dal sole.

E poi lontano, ma ancora chiaramente udibile, sento muoversi Jin, in cucina, mentre armeggia per rimettere a posto la sedia. Deve essere un lavoro massacrante e senza soddisfazioni, il suo. C'è davvero qualcuno che sta peggio di me al mondo.

Cazzo, rifletto mentre il mio sangue si allarga lentamente sul pavimento, perché non ci sono arrivato prima?

Riderei istericamente, se ne avessi le forze.

Non ci sono arrivato... Ecco perché mi merito questa fine.

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