La Saponificatrice di Correggio. Luci e ombre su una serial killer.

a cura di Lory Cocconcelli

"Non è necessario credere in una fonte sovrannaturale del male: gli uomini da soli sono perfettamente capaci di qualsiasi malvagità." Joseph Conrad.

Leonarda Cianciulli, immagine utilizzata per uso di critica o di discussione ex articolo 70 comma 1 della legge 22 aprile 1941 n. 633, fonte Internet

Leonarda Cianciulli, la Saponificatrice di Correggio

Correggio (Reggio Emilia), anni '70. Una sera d'inverno. Una bambina, un vecchio e un mazzo di carte. Tra una mano di briscola e l'altra, lui le raccontò una storia. Quella di un'efferata assassina che aveva vissuto a Correggio e che aveva fatto sapone del cadavere delle sue vittime. Della signora, il vecchio conosceva il figlio maggiore.

La bambina, intrigata da quella sorta di favola dell'orrore, ripropose l'argomento diverse volte nel corso delle partite a carte che si susseguirono in quel freddo inverno, ma l'uomo non si spinse mai oltre la scarna versione iniziale. Di più non sapeva. O probabilmente non voleva dire. Nessun nuovo dettaglio per la piccola curiosa, almeno fino a quarant'anni dopo... quando ho trovato nella biblioteca della mia città la verità su quella storia. Sì, quella bambina ero io. E il vecchio era mio nonno.

Si diceva che la signora Leonarda Cianciulli, nata nel 1894 in un paesino in provincia di Avellino e trasferitasi a Correggio nel 1930 insieme al marito in seguito al terremoto che colpì la Lucania, fosse una donna assai strana, dedita all'occultismo e alla magia nera. Nata in seguito a uno stupro, passò la sua vita a difendersi dalla maledizione che le lanciò la madre, alla cui azione nefasta Leonarda imputò la perdita di numerosi figli. Il marito, Raffaele Pansardi, un impiegato del catasto, a un certo punto giunti a Correggio si diede al bere e lei lo cacciò di casa. Per i figli sopravvissuti, la Cianciulli nutrì un amore sconfinato e allo scoppio della seconda mondiale, paventando che il maggiore di questi potesse essere chiamato alle armi, compì dei sacrifici umani per ingraziarsi le forze del male. Così uccise tre donne, tre sue amiche. Le smembrò, le fuse nella soda caustica per sbarazzarsi dei cadaveri, bollì ciò che rimase e ci fece del sapone, mentre con il loro sangue confezionò dei cioccolatini.

Quel "si diceva" - molto più di ciò che mi raccontò mio nonno all'epoca - è ciò che, divulgato per più di mezzo secolo, ha dato vita a fantasiose biografie del personaggio Cianciulli, ispirando altresì suggestive produzioni cinematografiche. Ma quel "si diceva" nasconde un vasto campionario di menzogne ed esagerazioni. Alimentate da chi o da cosa? Dal memoriale della signora Cianciulli - un tomo romanzato di più di settecento pagine verosimilmente corrette e modificate da uno o più anonimi -, dai luoghi comuni di una arretrata società contadina ancora terrorizzata dalle streghe e da una stampa discutibile affamata di cronaca nera che, sulla scia degli orrori della seconda mondiale, fece di un'assassina un mito. Dopotutto incarnare il male può servire a esorcizzarlo, ma la Cianciulli, l'espressione del "bisogno del mostro", nonché di un pessimo giornalismo, non saponificò mai nessuno. Uccise sì, ma non per le ragioni che si sono sempre credute. Oggi è inquadrata come un'"assassina seriale per guadagno personale" - fenomenologicamente una serial killer - poiché commise le sue atrocità per denaro ovvero per l'ossessione borghese di elevarsi a essere la "signora" che non era.

Quanto alle invenzioni, ce ne furono molte. Il marito della Cianciulli non si diede mai al bere e non venne di conseguenza cacciato di casa. Lei, poi, ovviamente non aveva la coda, né il corpo ricoperto di peluria maschile - i presunti segni della "bestia" -, era una donna alta un metro e cinquanta, dai fianchi larghi, i lineamenti duri e non particolarmente piacenti. Non fece mai sedute spiritiche o letture delle carte. Non nacque in seguito a uno stupro e probabilmente sua madre non le lanciò alcuna maledizione. Nessuno a Correggio acquistò da lei sapone né tantomeno ricevette cioccolatini fatti in casa. Non commise i delitti per ingraziarsi le forze del male ed evitare che il figlio maggiore, Giuseppe, fosse chiamato alle armi (gli omicidi vennero perpetrati prima della dichiarazione di guerra da parte dell'Italia, anche se il processo iniziò solo nel 1946).

Ecco invece come probabilmente fu la storia, almeno secondo le ipotesi di anni di riesame del materiale clinico, biografico, criminologico e giuridico. Innanzitutto occorre dire che se gli omicidi fossero avvenuti in un mondo più grande rispetto alla piccola realtà correggese, dove gli occhi di tutti spiavano tutti, forse sarebbero stati ben più di tre. E questa, paradossalmente, fu una fortuna.

Nel 1930 la Cianciulli e il marito approdarono nella piccola cittadina della bassa reggiana in seguito al terremoto della Lucania. I tre figli della coppia indossavano vestiti regalati dai vicini perché la famiglia, che viveva del solo stipendio di Raffaele, un impiegato del catasto, non se la passava troppo bene. Lei era incinta, terrorizzata che la gravidanza potesse interrompersi spontaneamente, come era già accaduto molte altre volte (all'incirca quindici) in precedenza. Con suo grande dolore, anche quell'ultima non giunse al termine. Poi, rimase gravida di nuovo e diede alla luce una bambina.

Dopo qualche anno dal loro arrivo a Correggio, con sorpresa di tutti, il tenore di vita della famiglia si elevò, una domestica fissa si insediò a casa Pansardi e la signora prese a frequentare regolarmente il parrucchiere e a spendere e spandere in vari negozi. Tutto fu possibile grazie a un giro di prestiti e a una piccola compravendita di oggetti usati che l'intraprendente Leonarda aveva messo in piedi. Non che il marito ne fosse particolarmente contento, ma in casa i pantaloni li portava lei. Nel 1939 la donna decise di incrementare gli introiti in un modo piuttosto singolare: assassinò tre persone per impossessarsi delle loro sostanze. Per l'esattezza uccise tre sue amiche, donne sole e deboli, con aspirazioni che lei cercò (a parole) di soddisfare, per le quali trovò delle "occasioni da non perdere" fuori città, in cambio della promessa di non rivelare a nessuno che fosse lei l'artefice della loro fortuna.

Gli strumenti del "mestiere" della presunta saponificatrice Leonarna Cianciulli, , immagine utilizzata per uso di critica o di discussione ex articolo 70 comma 1 della legge 22 aprile 1941 n. 633, fonte Internet

Gli strumenti del "mestiere" della presunta saponificatrice Leonarna Cianciulli.

La prima, tale Faustina Setti, settant'anni, un bel giorno si tinse i capelli, si imbellettò, si laccò le unghie, salutò parenti e amici adducendo a un viaggio dalle motivazioni differenti a seconda dell'interlocutore che si trovò dinnanzi (una vacanza, un matrimonio, una visita a un cugino) e si recò dalla Cianciulli per un ultimo commiato per poi sparire per sempre. Nel 1940 anche Francesca Soavi, cinquantacinque anni, disse di aver deciso di partire: aveva trovato un impiego come direttrice di un collegio in una città di cui non fece menzione; i suoi beni, rivelò alla sua coinquilina, li aveva venduti a Leonarda che andò a salutare un'ultima volta per poi scomparire nel nulla. Sempre nel 1940, Virginia Cacioppo, 59 anni, ex cantante lirica, lasciò Correggio poiché la Cianciulli le aveva trovato un lavoro ben remunerato (e forse anche un marito benestante) a Firenze. Come le altre, andò a salutare l'amica e sparì. Il fatto che le donne scomparse non mantennero il segreto su chi avesse procurato loro l'occasione, indirizzò immediatamente i sospetti sulla Cianciulli. Perché molte cose non tornavano né ai loro parenti né agli amici.

Il Maresciallo di Correggio, avvertito delle voci che circolavano intorno a quelle strane partenze, liquidò la faccenda come "chiacchiere di donnette". Allora a indagare ci pensò proprio una "donnetta", la maestra elementare Alberta Fanti, cugina della Cacioppo. I correggesi collaborarono con lei, come pure gli autisti degli autobus i quali, dopo essersi consultati tra loro, le riferirono che nessuna delle tre donne era salita a bordo dei mezzi che conducevano.

Poiché il Maresciallo rimase saldo sulla sua posizione, la Fanti si recò dal Questore di Reggio Emilia. Gli raccontò dell'accaduto, dei suoi sospetti e gli fornì un elenco di titoli di Stato con tanto di numeri di serie e importo, che appartenevano alla cugina e che custodiva per lei da anni in un cassetto. «Se trovate i titoli, trovate lei», disse la lungimirante "donnetta" al Questore.

Nel 1941 la casa della Cianciulli - poiché la Cacioppo vi era stata vista entrare prima di scomparire - venne perquisita senza che fosse rinvenuto niente di compromettente. Qualche tempo dopo fece la sua comparsa uno dei titoli di Stato di quel famoso elenco. Era un prete ad averlo venduto. Interrogato, l'uomo disse di averlo avuto da un casaro di Correggio di cui era buon amico. Il casaro, a sua volta, dichiarò che la Cianciulli gli aveva chiesto il favore di cambiarlo. Alla luce di quei nuovi eventi, venne di nuovo perquisita la casa della donna. Questa volta furono trovati elementi più interessanti: nel solaio affiorarono una scure, un martello, un seghetto, una mannaia da cucina e un recipiente contenente residui di cemento. Qualche traccia di sangue fu rinvenuta sui (presunti e in seguito confermati) corpi del reato, nel bagno e in uno stanzino dove si conservavano le vivande. Quello che la Cianciulli aveva ripulito a furia di secchiate d'acqua (come in seguito dichiarò) non era più visibile a occhio nudo - occorre tenere a mente che negli anni '40 non esistevano i mezzi scientifici di cui disponiamo oggi per effettuare i rilievi su una scena del crimine.

Interrogata, la domestica terrorizzata ammise che la signora Cacioppo il giorno della sua scomparsa era effettivamente passata a casa Pansardi e che, quello stesso giorno, c'era uno strano pentolone che bolliva in cucina mentre una puzza fortissima di carne putrefatta usciva dal bagno. La Cianciulli fu immediatamente tradotta in carcere. La sospettata negò ogni addebito, poi cambiò versione: lei e il casaro erano complici, lui aveva ucciso e fatto a pezzi la Cacioppo, lei aveva messo i "tranci" dei corpi a bollire nella soda caustica. Poi ritrattò ancora: il casaro non c'entrava nulla, aveva fatto tutto da sola. In seguito affermò di aver ucciso anche la Setti, intontendola con del caffè al laudano, ma chi l'aveva depezzata prima che lei la bollisse era stato un tizio, tale Aristide Sacchetti (nel frattempo deceduto, in seguito scagionato dalla stessa Leonarda).

Le domestiche che lavorarono a casa Pansardi furono due: Ardilia, che fu ricoverata in un ospedale psichiatrico perché non resse al colpo di quell'orrore, e Nella, che rese la testimonianza di cui sopra.

Nel corso di un nuovo interrogatorio, la Cianciulli cambiò ancora versione, affermando di avere ucciso lei da sola la Cacioppo (con un colpo di scure alla nuca) come pure la Setti e la Soavi, di averle smembrate in nove pezzi e infine saponificate. Quanto alla Soavi, dichiarò di averle fatto scrivere delle cartoline per salutare amici e parenti - imbucate dai quindici ai trenta giorni che seguirono l'omicidio da Giuseppe su suo incarico, dalla località di Pola.

Si stima che da quegli assassinii, la donna "incrementò le sue entrate" di un valore pari ad oggi a circa 72.000 euro.

Rappresentazione artistica ispirata alla Saponificatrice, immagine utilizzata per uso di critica o di discussione ex articolo 70 comma 1 della legge 22 aprile 1941 n. 633, fonte Internet

Il mito dela Saponificatrice ha ispirato anche rappresentazioni artistiche, come questa di Dario Agrimi (Credit: Collaterart).

Il marito a quel punto della storia non si trovava più a Correggio: trasferito d'ufficio a Genova. Raffaele Pansardi ritornò nel reggiano per rendere la sua testimonianza ma scivolò tra i faldoni dell'inchiesta, senza avere molto da spiegare né da raccontare, offrendo il quadro di una vita famigliare modesta ma vissuta con dignità. Ovviamente si era accorto di quei soldi in più che circolavano per casa ma poiché gli facevano comodo aveva chiuso un occhio. Quanto ai figli minori, non vennero mai interrogati, il che si rivelò un errore investigativo tra i molti commessi (come le perquisizioni a più riprese di casa Pansardi, per esempio). Pensare che quei ragazzini potessero sapere qualcosa dell'orrore che si era perpetrato in casa loro probabilmente fu ritenuto "troppo".

A quel punto la Cianciulli continuò nel suo cambio frenetico di versioni, fornendo come movente degli omicidi il tentativo di salvare i figli dalla morte e dalla malattia. Nel frattempo il maggiore di questi, all'epoca ventunenne, si impegnava a sminuire la sua posizione fornendo gli alibi per i tre assassinii (uno dei quali non reggeva, un altro appariva debole, mentre un ultimo trovò effettivo riscontro). Qualcosa con Giuseppe non tornava. Così, Leonarda e il figlio rimasero al centro della scena - forse, l'assassina e il suo complice - mentre tutti gli altri personaggi si defilarono. "Peppuccio" fu probabilmente il braccio destro della madre, la sua anima, l'unico di cui la Cianciulli si fidò ciecamente perché simile a lei oltre misura, con la stessa patologica tendenza a mentire e a provarne piacere.

Nel prosieguo delle indagini, gli inquirenti decisero di perquisire il pozzo nero di casa Pansardi. Tra i vari reperti, dei capelli, un pezzo di cranio, una dentiera con quattordici denti (la signora Setti portava una dentiera con quattordici denti), una quantità spropositata di calce ma nessun residuo di soda caustica - come nemmeno nel calderone che la Cianciulli aveva dichiarato di aver utilizzato per bollire e saponificare i pezzi dei cadaveri. Non ultimo, la distruzione dei corpi non poteva essere avvenuta con le proporzioni di acqua, di soda e con i tempi menzionati dalla signora durante gli interrogatori. Anche la produzione di cioccolatini con il sangue delle vittime si rivelò una frottola, una delle domestiche confermò peraltro che la Cianciulli i cioccolatini non li faceva, ma li comprava. Elemento importante: per fare sapone di un corpo, occorre separare il grasso dalle masse muscolari ovvero eseguire un lavoro esperto di cui la presunta Saponificatrice non sapeva assolutamente nulla. E ancora, non si versa in un recipiente la soda e poi l'acqua, come aveva affermato Leonarda, bensì il contrario: con la "ricetta" della signora il calderone avrebbe sprizzato flutti malignamente corrosivi. Fatto che, nella sua cucina, non avvenne mai.

In conclusione, per essere creduta pazza e soprattutto per non coinvolgere il figlio, la donna inventò la storia del sapone. E' più verosimile pensare che l'assassina tentò di distruggere con la calce viva i cadaveri effettivamente smembrati, nascondendoli in un primo momento in solaio (della cui porta, per un periodo, fu l'unica ad avere la chiave) e bollendoli in seguito nel famoso calderone, e che gettò ciò che non si era distrutto completamente nel pozzo nero oppure lo trafugò con un diversivo (forse con l'aiuto di un complice). Ma torniamo a quei giorni. Alla luce di quei rinvenimenti, i Carabinieri effettuarono una nuova perquisizione. Vennero ritrovati nella zona della canna fumaria un orologio da donna e un anello - probabilmente appartenenti a una delle vittime -, mentre nel comò della Cianciulli una camicia da notte con le iniziali della Soavi.

Nell'agosto del 1941 venne disposta una perizia psichiatrica per determinare se Leonarda fosse imputabile perché sana di mente (in tal caso avrebbe rischiato la fucilazione - in vigore a quei tempi nel nostro codice penale) oppure inferma. Che fosse colpevole non v'era più ombra di dubbio. La perizia venne affidata a uno dei più illustri psichiatri italiani, Filippo Saporito, Direttore del Manicomio Criminale di Aversa dove la donna fu trasferita. Il luminare ebbe l'idea di chiederle di scrivere la sua vita. Nel 1943 un memoriale dattiloscritto di 748 pagine, zeppo di preghiere e citazioni dai vangeli, invenzioni incredibili ed esagerazioni plateali, venne consegnato al Professore. Piuttosto inverosimile che lo scrisse da sola la Cianciulli. A parte confondere le acque e alimentare il mito della Saponificatrice, non fu che il palcoscenico di un'assassina, corretto da un editor ignoto che abbellì e acculturò - per una ragione sconosciuta - il pessimo manoscritto di un'autrice di scarsa cultura.

Ma che fine fece il bottino? A chi poteva mai averlo affidato Leonarda, se non all'unica persona di cui si fidava ciecamente, quella con la quale vantava un rapporto simbiotico? Giuseppe venne tratto in stato di fermo un mese dopo la madre dunque avrebbe avuto tutto il tempo di nascondere il denaro.

Nel 1946, pochi giorni dopo il referendum monarchia-repubblica, ebbe inizio il processo alla Saponificatrice e al figlio. Leonarda - che si scoprì peraltro essere pluripregiudicata per furto e truffa - fu ritenuta colpevole di triplice omicidio premeditato, aggravato e continuo, delle rapine alle tre vittime, della distruzione dei loro cadaveri e di altre imputazioni minori, con il beneficio della semi-infermità mentale. Pertanto condannata a trent'anni di reclusione, con l'obbligo di scontare i primi tre in un manicomio criminale.

Giuseppe fu scagionato malgrado molte cose sul suo conto non tornassero (a partire dal suo atteggiamento sprezzante e provocatorio nei confronti degli inquirenti, dal fatto che negli ultimi tempi, prima dell'arresto, se ne andasse in giro con le tasche piene di soldi, per finire con quei due alibi forniti che non reggevano). Quanto all'avere imbucato le cartoline scritte dalla Soavi, per i giudici non fu una prova di colpevolezza bensì un semplice atto di obbedienza nei confronti della madre. In realtà non vollero credere che un bravo ragazzo, istitutore al Convitto di Correggio, impegnato nelle ricerche per la sua tesi di laurea, avesse potuto macchiarsi di sì orrendi crimini compromettendo il suo brillante futuro.

Con un tempismo stupefacente, settant'anni anni dopo il processo, Nella, una delle domestiche che avevano prestato servizio a casa Pansardi confessò per la prima volta di aver visto nel solaio di Leonarda, all'epoca dei fatti, delle gambe mozzate, e la valigia con la quale era solito viaggiare Giuseppe, per i frequenti incarichi a Milano, vistosamente sporca di sangue.

Il sangue lo univo a marmellata, cioccolato, odori di mandarino, anice, vaniglia e tante volte a cannella e garofano. Quello infornato invece mi toccava pestarlo in un mortaio perché l'umido lo aveva rammollito, questo però dopo pestato mi toccava cuocerlo con latte, dopo rifondevo il cioccolato e resti. Qualche volta nelle torte mettevo qualche pizzico della polvere delle ossa. (Cit. dal memoriale autobiografico dell'assassina).

Nel corso della sua reclusione, la Cianciulli fu trasferita in varie carceri fino al sopraggiungere della morte che avvenne nel 1970 nel Manicomio Giudiziario per Donne di Pozzuoli, per apoplessia cerebrale. Durante la prigionia chiese la grazia e un processo d'appello, che le furono negati.

L'ultima invenzione giornalistica riguardo la Saponificatrice fu inerente alla sua sepoltura. Che non avvenne in una fossa comune come fu scritto, bensì in una tomba con tanto di croce, nome e cognome.

Tutti i Pansardi si trasferirono in tempi diversi lontano da Correggio. La scure, la mannaia, il seghetto e il martello finirono al Museo criminologico di Roma.

Oltre a Il Correggio, Dorando Pietri, Pier Vittorio Tondelli e Luciano Ligabue, il piccolo paese della bassa reggiana sarà ricordato anche per Leonarda Cianciulli. Ma bisogna dire che la Saponificatrice - della quale si trovano in letteratura numerose quanto inesatte biografie - non saponificò mai nessuno.

Bibliografia

Mastronardi Vincenzo Maria e Sanvitale Fabio, Leonarda Cianciulli - La Saponificatrice, Armando Editore, Roma, 2010

Sitografia

http://www.focus.it/

http://www.notemodenesi.it/

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