La Terra dei Giusti

di Lorenzo Grilli

Gog e Magog si adunarono a battaglia con tutti i loro alleati, dai Feroci Slig delle montagne ai Rook dei Passi Oscuri, fino ai Dalgion dal sangue scarlatto, passando per gli spenti eserciti di stati che esistevano solo sulla carta e che in realtà non erano altro se non schiavi fedeli dei due contendenti.

La piana dell'Oscura Foresta, selva da tempo scomparsa, era pronta ad accogliere i combattenti sulla sua terra nera e riarsa dal sole, dove sparuti gruppi di alberi avvizziti osservano, dai bordi della conca, il terreno che a breve avrebbe bevuto il sangue di molti uomini innocenti.

Innocenti?

Si, innocenti come un boia, come un venditore di bambini, come un commerciante di inganni e un dispensatore di violenze.

Ma l'epoca era oscura, la più oscura che si ricordasse dalla notte dei tempi, e giustificava gran parte delle loro colpe.

Dalle colline sovrastanti i due eserciti scesero lentamente, fronteggiandosi con cautela come due lottatori esperti che valutavano la forza dell'avversario prima di gettarsi anima e corpo nella mischia.

Le armi lampeggiavano al sole, mandando bagliori sinistri dai tristi presagi che nessuno osava mettere in discussione. I fanti stringevano convulsamente gli scudi e i picchieri preparavano le falangi, sapendo che avrebbero affrontato il primo impatto del nemico. Altre armi e altri tempi scorrevano nelle loro memorie agitate, ma nessuno scudo poteva davvero proteggerli. Lance o fucili, nulla sarebbe cambiato: gran parte di loro sarebbe morta quel giorno, forse tutti. L'ultimo bacio di sangue dell'umanità alla sua Terra morente.

Cavalieri splendenti nelle loro armature leggere e pesanti scalpitavano sui fianchi dei due eserciti immensi. Al di là dei crinali della conca continuava ad avanzare a marce forzate un numero sterminato di uomini anch'essi consapevoli del martirio imminente.

Ma i pensieri di morte non li fermarono. Anzi, buona parte di loro affrettò il passo.

La giornata di battaglia iniziò con alcune finte cariche di cavalleria da una parte e dall'altra, mentre, con lentezza, alle loro spalle gli eserciti andavano incontro a un abbraccio mortale.

Compagnie di arcieri, frombolieri e balestrieri superavano rapidamente le proprie linee, scaricavano le armi sul nemico avanzante e si ritiravano, dando alla cavalleria leggera il tempo per compiere azioni di disturbo quando gruppi avversari cercavano di inseguire le unità da lancio.

Nubi di polveri sempre più spesse oscuravano la visuale anche agli uomini dalla vista più acuta; inevitabilmente diversi manipoli sparsi di cavalieri incominciarono a scontrarsi nel cuore della piana mentre la moltitudine ascoltava rapita il fragore delle armi. Lo scontro finale era dunque iniziato.

Inevitabilmente, gruppi sempre più folti di cavalieri si staccavano dalle proprie schiere per cercare una morte gloriosa al centro della battaglia.

All'improvviso le due fanterie si mossero, prima con cautela, poi sempre più velocemente, correndo e infine letteralmente divorando la distanza che li separava dal nemico, invasati dall'assurda mistica di quell'orgia di sangue e incitati da una immensità di corni, buccine e tamburi che risuonavano da ogni parte, riempiendo la valle di suoni guerreschi.

Gli eserciti cozzarono fragorosamente, con una violenza inaudita. Gli sfortunati cavalieri al centro della piana furono travolti in un attimo, talvolta dai loro stessi compagni accecati dal desiderio di uccidere e di vedere le proprie armi imbevute di sangue.

Le prime schiere furono decimate in pochi istanti, nemmeno in un battito di ciglia, frattanto che i cavalieri superstiti sui fianchi continuavano nella loro danza di finte, ripiegamenti e contrattacchi.

Alle loro spalle, sempre nuove schiere sostituivano gli immensi vuoti lasciati nelle file degli eserciti. Nella furia della battaglia i soldati calpestavano i loro compagni morti o morenti.

Il sole aveva ormai raggiunto il suo apice nel cielo e incominciava a declinare, inorridito da quell'inutile scempio, mentre ormai una nuova, bassa e lunga collina si ergeva al centro della conca. In cima, insieme ai cadaveri già in decomposizione, uomini sempre più disperati si battevano per le spoglie di un mondo finito.

Gli Slig erano stati ormai annientati, nessuno di quegli uomini orgogliosi era rimasto in piedi al termine del primo giorno di battaglia. Fortunato fu il loro destino.

Lo stendardo dei Rook sventolava ancora alto nel cielo, nella parte sinistra del campo di battaglia circondato da un numero sempre più esiguo di difensori.

Lo stendardo viola, con dardeggianti spirali dorate, era conficcato nel terreno, attorno a una piccola asperità del suolo. Lì i Rook avevano deciso di resistere e lì avevano massacrato innumerevoli nemici, i cui cadaveri ora formavano una macabra trincea difensiva. Ma per ogni nemico ucciso ne spuntavano altri dieci, cento, mille, mentre i Rook diminuivano sempre di più e disdegnavano l'aiuto altrui.

La notte calò su quegli ultimi, valorosi difensori, salvandoli da una fine ormai imminente. Gli eserciti si ritirarono ai bordi della conca. Iniziò la tregua notturna, ma invece di sfruttarla per raccogliere morti e feriti della propria fazione, gli eserciti bruciarono i corpi di coloro che si trovavano al centro del campo di scontro.

All'alba del nuovo giorno il vento del nord aveva già disperso le loro ceneri. Furono gli ultimi ad avere una degna sepoltura.

All'inizio del secondo giorno di combattimenti gli eserciti ripresero a scendere nella valle dalle alture vicine, pronti a massacrarsi e a morire per un'altra giornata ancora.

Tutti i cavalieri erano concentrati in un unico punto sulla destra delle alture, a occidente. Caricarono frementi, desiderosi di distruggersi a vicenda, in fondo erano lì per quello, con i cavalli resi nervosi e impazienti dall'odore del sangue e delle ceneri ancora calde. Nell'attacco, le file dei due schieramenti si mischiarono in un folle turbinio di polvere, poi si separarono cercando di aggirare la cavalleria avversaria e prendere sul fianco la fanteria nemica in una serie di mosse e contromosse che sfiancarono cavalli e cavalieri, frammentando lo scontro in gruppi sempre più piccoli e distanti dalla zona centrale degli scontri dove picchieri, gladiatori, lancieri e fanti di ogni genere e foggia proseguivano a massacrarsi.

Quando il sole raggiunse l'apice della sua seconda corsa lo stendardo dei Rook giaceva nella polvere nera, striata di sangue attorno ai corpi, privi di vita, degli ultimi della loro stirpe.

Proprio in quel momento apparvero i Giusti.

Nessuno pensava di vederli, nessuno credeva che sarebbero venuti, odiavano entrambi i contendenti indistintamente.

Spuntarono da est, dall'unica macchia di verde malaticcio rimasta nella zona. La vegetazione era servita a proteggere la loro avanzata fino ai margini del campo di battaglia e ora proseguirono compatti, come un'unica grande falange mista di guerrieri appiedati e a cavallo. Le loro armature leggere e brillanti risplendevano nel sole, facendo da contraltare a quelle ormai scure di sangue rappreso dei pochi superstiti dei due eserciti di Gog e Magog.

I Giusti presero d'infilata entrambi gli schieramenti, accanitamente decisi a distruggersi tra loro, e diedero inizio a un metodico massacro, come per dare sfogo a una rabbia a lungo repressa.

Al centro, lo scontro non accennò a calare di intensità, tanto che anche le ultime riserve vennero calate nella mischia. Erano i corpi scelti della Vecchia Guardia, quelli che proteggevano gli scellerati Imperatori, giunti anch'essi nella conca per dare appoggio morale ai propri eserciti.

Era la fine del mondo, dell'umanità nella sua essenza.

Questo era scritto nelle Tavole e fino a quell'istante non avevano mai sbagliato: i segni del declino finale si erano palesati, tutto era andato come previsto. Più terrificante di ogni altro presagio, la magia del futuro aveva smesso di funzionare, tutto ciò che gli Eletti avevano visto era un muro di notte denso come la pece.

Il Nulla, il Nulla stava per giungere sugli uomini. Come e da dove non era dato saperlo, ma sarebbe giunto molto presto, entro pochi giorni o forse addirittura in quell'ora estrema.

E in mezzo a questa follia delirante, i due Imperi, cresciuti come un cancro dalle viscere della terra, avevano deciso di affrontarsi nella battaglia finale. Di più, avevano scelto di battersi proprio per ciò che dicevano le Tavole. Tavole a cui loro, gli Imperatori, non credevano.

Solo i Giusti avevano tardato a gettarsi nella mischia, ma adesso erano arrivati e nemmeno la loro feroce determinazione e l'altrettanto grande organizzazione avrebbe evitato l'arrivo del Nulla.

A ovest, i Dalgion dal sangue scarlatto, una razza giunta da un luogo misterioso con quasi nulla di umano nelle vene, avevano ripreso la strada per l'Oriente. Si erano allontanati di diverse miglia dalla conca, inseguendo altri cavalieri. Erano una razza di cacciatori, fin dagli albori del Tempo, anche i loro cuccioli uccidevano per diletto. La voglia di sangue era insita in loro e, se avessero potuto fare ciò che volevano, avrebbero ucciso qualsiasi uomo, indistintamente. Per questo nessuno si sarebbe stupito se alla fine del giorno essi fossero sopravvissuti.

In lontananza, nella piana, gli stendardi imperiali, gialli e cremisi, circondati dalle truppe migliori, si avvicinavano nella mischia e presto si fece il vuoto attorno a loro.

Quando si fronteggiarono, scese il silenzio sul campo di battaglia, gli scontri cessarono e gli uomini tutti trattennero il respiro, consci dell'impossibilità del ritorno. Quindi i due stendardi si approssimarono ancora e la battaglia riprese con maggiore intensità.

A Oriente, la falange dei Giusti aveva perso lo slancio iniziale, ma nel momento in cui videro gli stendardi imperiali avvicinarsi, raddoppiarono gli sforzi e caricarono. Alle loro spalle nessun nemico era rimasto in vita.

All'estremità occidentale della conca, uno spettacolo raccapricciante apparve agli occhi dei Dalgion. Per miglia e miglia non si vedevano che cadaveri. Gli eserciti si erano massacrati a vicenda. Solo nel mezzo, in un fulcro di resistenza, si combatteva ancora. Tre stendardi brandeggiavano alti nel cielo, sospinti dal forte vento che avevo preso a spirare da nord, spazzando via il lezzo di carne putrefatta, stagnante ormai da due giorni nella conca.

A un tratto, lo stendardo di Gog cadde sopra i suoi uomini sterminati. Urla di giubilo si levarono dalle stanche schiere di Magog.

Si trattò di un tripudio oltremodo breve: i Giusti si contrapposero alla Guardia Imperiale di Magog e puntarono dritti verso il suo vessillo, là dove l'ultimo Imperatore della Terra aveva raccolto il suo effimero trionfo.

In un attimo gli furono addosso. Al termine dello scontro, solo pochi Giusti rimasero padroni del campo e si radunarono in preghiera di ringraziamento, sotto il sole morente che allungava le ombre dei Dalgion dal sangue scarlatto.

L'alba del giorno dopo la battaglia accolse le vicende umane con la consueta indifferenza. Nella conca rimanevano solo morti insepolti, cadaveri che venivano già divorati dagli avvoltoi.

Allontanandosi dal campo di battaglia, stanco e stordito per le molte ferite riportate, il comandante dei Dalgion pensò che in fin dei conti le Tavole, quell'assurda accozzaglia di leggi e profezie religiose a cui non aveva mai voluto dare credito, avevano colto nel segno.

Il Dalgion cercò di ricordare le parole esatte, ma era esausto e quell'attimo di concentrazione eccessiva per poco non lo fece cadere da cavallo. Si tirò su con uno scatto rabbioso e di colpo gli tornarono in mente le parole.

Il testo terminava affermando:

E i Giusti?
I Giusti non erediteranno la Terra.

Il comandante sorrise soddisfatto. Era a capo dell'unica forza militare superstite del pianeta.

Grandi cacce li attendevano.

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