La vidi

di Fulvio Poglio

Un venerdì sera, qualunque.

La vidi anche quella volta come sempre.

Io ero là, cazzo, ero là all'uscita di quella birreria sulla statale. Il locale basso a un piano, l'insegna al neon viola enorme che si erge verticale sulla strada, come quella di un distributore di benzina, "Il viandante perduto", lampeggiante, che introduce, invoglia a fermarsi nel parcheggio fuori, grande, in terra battuta con la ghiaietta scostata, ammonticchiata dai segni delle sgommate e dei parcheggi nervosi e prepotenti delle Golf, delle Tigra e Punto Cabrio mollate alla rinfusa.

L'unz-unz della musica rimbomba fuori dai vetri oscurati che circondano l'edificio, sembra un grosso autogrill riadattato, e filtra dalla porta larga aperta, sorvegliata da due grossi energumeni in maglietta e jeans neri. Fuori dunette di ghiaia e polvere mosse continuamente, calpestate e ricalpestate che si levano in fumi tagliati dai fari delle auto e dalle figure che corrono, schiamazzano, gomme che stridono, minigonne e tacchi che scricchiolano sulla ghiaia, risate e bottiglie che si infrangono per terra. Frammenti smozzicati di grida e cristoni, odore di canne, alcool e benzina, e gomma bruciacchiata. Magliette nere e teste rapate, tranne il ciuffo impomatato, modello ananas, cinture borchiate e anfibi, abitini neri strecciati e labbra dipinte con il contorno più scuro, trucchi pesanti circondati da capelli cotonati biondi, neri, ma solo colori assoluti, niente sfumature.

Questa era la notte, quindi il divertimento.

E io ero là, quando lei decise che doveva farsi una passeggiata sulla statale. Era parecchio sbronza, certo, anche un po' sfatta, dopo una pasticchetta, un po' di cool-alcohol e tre cannoni. Ammetto che ero fuori anch'io, cazzo, e che avevo contribuito non poco a stonarla. Ma Cristo, volevo che mi notasse, mi piaceva veramente una cifra.

Mi ero preso una sbandata notevole, davvero grande. Da quando l'avevo conosciuta, lei non mi aveva notato, ma io mi ero subito innamorato, era la prima volta che mi succedeva di provare cose simili. Amavo il suo modo flessuoso di muoversi, di parlare, il modo in cui si attorcigliava i capelli quando era assorta, la gioia che provava nel sentirsi considerata e al centro dell'attenzione, la malizia intrigante dello sguardo con il quale provocava attenzioni ed erezioni. Lei non mi notava, ma io la osservavo, sempre, defilato, un po' triste e un po' sornione; avevo bisogno di guardarla muoversi e parlare. Mi bastava, in fondo, perché mi ero innamorato di lei.

Quella sera aveva un vestitino a fiori corto e scollato dietro, e delle calze nerissime sulle gambe tornite e nervose. Due tettine piccole provavano a forare l'abitino. Una massa di capelli scuri le circondava il volto piccolo, con le labbra carnose e gli occhi grandi, azzurri.

E 'sta stronza che fece?

Fuori come un cammello, si mise sulla linea di mezzo della statale, facendo, diceva, l'equilibrista, e noi a ridere come cretini e a guardarle le cosce che il vestitino scopriva, mentre con le braccia alzate seguiva la linea bianca, un piede davanti all'altro. Fu allora che arrivò la macchina.

In quel punto la strada fa una larga curva e l'auto arrivò veloce, troppo. Sbandò. Quasi ci acchiappò tutti e invece prese lei in pieno sulla linea, a pochi metri dal fosso e i campi.

Cazzo!

L'impatto fu enorme, i fari la avvolsero, la illuminarono in modo accecante, l'urlo della frenata e lei saltò in aria, bambolina di pezza gettata da un bambino che si era stufato del giocattolo. Colpita da dietro, oltrepassò la macchina in pieno, un volo di una decina di metri e poi giù, l'impatto sull'asfalto. Rimbalzò e rotolò sulla statale come se le ossa non le avesse più. L'auto continuò la sua curva a velocità folle, uno stridio di gomme e sparì davanti a noi. Restammo impietriti.

Poi la corsa disperata, le urla, il casino, chi, cellulare alla mano, faceva il 113, il 118 e i pianti. Quanti pianti!

Io arrivai per primo sul corpo riverso sulla strada. Non respirava, né si muoveva neanche più.

Era andata.

Piansi anch'io su di lei, oh se piansi, stringendola disperatamente tra le braccia, sentendo che non c'era più, che molle adagiava la sua testa tra le mie gambe e il corpo disarticolato stava lì abbandonato, come fosse di gomma. Mi staccò da lei solo il medico accorso con la pattuglia della polizia e l'ambulanza per constatare che non c'era più niente da fare. Niente, nulla al mondo avrebbe potuto farci qualcosa. Al mondo.

A questo mondo.

Fu allora, mentre a braccia venivo allontanato dai miei amici, scossi anche loro, che la rabbia e la disperazione mi assalirono pesanti, prepotenti. Fu allora che il mio destino venne segnato, ineluttabile, che decisi che invece, contro l'Universo, si poteva fare qualcosa.

La luce delle sirene illuminava la notte. Le auto ferme e i cordoni arancione fosforescente a proteggere l'ambulanza, e il corpo sotto il lenzuolo bianco. La polizia chiedeva informazioni, "la dinamica dei fatti", bassi singhiozzi e abbracci tra di noi. Mi era passata la sbronza, tutto.

Decisi allora. Mi allontanai, raggiunsi la mia auto e velocemente ritornai verso casa.

I miei erano fuori per il week-end. Aprii la saracinesca dell'autofficina ed elettrauto.

Come Lei sa, abitiamo sopra il posto di lavoro. Dentro c'era una Ferrari in riparazione, nuova fiammante, ma con problemi alla centralina elettronica.

Ok, capisco: perché portare una Ferrari nell'autofficina di un paesello come il nostro invece che impacchettarla e spedirla, per esempio, a Maranello? Ma vede, da tutta la regione ci portano i loro gioielli, qua sono ricchi. E noi non abbiamo mai sbagliato. Dicono che noi abbiamo il "tocco" per la meccanica e l'elettronica, che per noi nulla è irrealizzabile o impossibile. Motori distrutti funzionano come appena usciti di fabbrica. Ci portano involucri vuoti di lamiera arrugginita e ripartono a bordo di fiammanti cacciatorpediniere della strada. La magia delle nostre mani che riporta alla vita ciò che era morto, che ricostruisce quello che era distrutto.

Ma torniamo a noi.

Tirai giù il motore della Ferrari, mi serviva molta potenza. Con qualche aggiustamento, non so bene come, lo resi perfetto. Il mio tocco magico condito da molto, molto amore e la rabbia disperata, bruciante, fortissima che mi divorava, fecero il resto.

Lavorai tutto il venerdì notte, il sabato e la domenica ininterrottamente. La domenica sera la Macchina era pronta.

Mi misi al centro della Macchina che avevo creato e azionai la leva che avrebbe acceso il motore e innescato il processo. Ci furono lampi, fumo, stetti malissimo e, quando il fumo si diradò, uscii dalla gabbia. L'autofficina era in ordine, la Ferrari pulita e intera ben parcheggiata nel mezzo. Poi guardai fuori, il calendario e l'orologio da muro sopra il bancone degli attrezzi.

Buio, venerdì, ore nove e trenta di sera. Ce l'avevo fatta, ma appena appena. Mi sentivo male.

Presi la Macchina e, con la tuta da meccanico, le mani e la faccia imbrattate di grasso, guidai come un pazzo fino alla birreria. Solite macchine, casino, unz-unz delle autoradio e del locale. Urla e risate. Inchiodai nel parcheggio e, senza neanche curarmi di chiudere la portiera, mi precipitai verso la statale.

Li vidi subito, lontani, un po' barcollanti, un po' abbracciati, la mia compagnia. Io ero là impotente come la sera prima, loro, scherzando, si avviavano verso il curvone della statale. Lei in testa che giocava alla ballerina sul filo con la linea bianca di mezzeria.

Corsi e urlai:

- Ehi! Porca puttana, smettila, fermati! Togliti da lì!

Facce stupite degli altri, mentre li raggiungevo e superavo di corsa. Iniziai a sentire dietro me il rombo di auto già udito, acuto, ululante, terribile. Superai qualche commento ridanciano e stupito:

- Guarda chi è! Ma come cazzo ti sei vestito, non è carnevale!

Lei si girò a guardarmi con gli occhioni blu sgranati e poi niente, era ancora troppo lontana da me. Lo stridio di gomme, il botto e il corpo che volò lontano.

No! Porca puttana, vaffanculo, per pochi metri!

Va bene. Mi allontanai correndo fino al parcheggio, ripresi la Macchina e ritornai a casa dove ripresi tutto da capo. La Ferrari, il motore, l'autofficina, la rabbia sempre più disperata, il nostro famoso tocco magico. In capo a due densi giorni completai da capo ciò che due giorni prima avevo appena finito. Distrutto, la domenica sera potevo di nuovo azionare la leva.

Quando il fumo si diradò, ero di nuovo al venerdì sera. Barcollavo come un ubriaco.

Ripresi la Macchina e ripartii. Questa volta non mi fermai al parcheggio del "Viandante perduto". Corsi lungo la statale e inchiodai direttamente davanti a loro, sollevando un polverone mentre accostavo al ciglio della strada tra la sorpresa e le imprecazioni degli altri.

Mi precipitai fuori e corsi verso di lei, già in mezzo, piccola, dolce funambola a fiori. E, Cristo, la stavo toccando, la stavo toccando questa volta, stavo afferrando un lembo della sua gonnellina quando lo spostamento d'aria gettò me a lato e lei parecchi metri indietro, a schiantarsi sull'asfalto della statale.

Cazzo, cazzo!

Mi rialzai e tornai verso la Macchina. Sentivo le urla degli altri e distinguevo come in una nebbia i loro volti, vedevo la loro disperata corsa verso di lei. Come le altre volte. Qualcuno notò anche me:

- Ehi, ma chi è quello? Ma non è...

Non me ne curai minimamente, risalii in Macchina e ripartii. Si ricominciava.

Tornando, mi guardai il volto allo specchietto retrovisore: ero irriconoscibile. Due orbite rosse al posto degli occhi, le guance scavate e i capelli, bianchi, che mi cadevano a ciocche! Capii allora che il vero carburante della macchina erano la mia disperazione e il mio amore per lei. Del resto, nel processo che sovverte le leggi del tempo deve essere spesa dell'energia. La Ferrari era sempre lì, a disposizione; la benzina anche, ero io, e piano piano si consumava.

Ma non me ne fregava una sega.

Ricominciai, tremante. Tremante per il mio amore che due giorni dopo sarebbe morto, investito su una statale del cazzo.

Per quanto avessi cercato di fare più in fretta, mi fossi spaccato, avevo di nuovo finito la domenica sera. Il tempo, minimo, per finire la Macchina era quello, seppure sovrumanamente avessi tentato di fare prima.

Azionai la leva e dopo strisciai verso la mia Macchina che mi attendeva nell'autofficina, nella tiepida e profumata sera del venerdì.

Questa volta feci davvero in fretta e inchiodai addirittura davanti a lei che stupita e barcollante appoggiò le mani sul cofano della mia Macchina. Il rombo dell'auto maledetta era fortissimo, poi la luce sul mio parabrezza posteriore e lo stridio dei freni della sbandata. Arrivò uno schianto forte, da dietro.

Quando rialzai testa e mani dal volante mi resi conto che ero illeso.

Fortuna del cazzo!

Alzai la testa in tempo per vedere le rosse luci posteriori dell'auto che si allontanavano. Mi girai e vidi dal lunotto posteriore il suo corpo gettato nella stessa maledetta, grottesca posizione di sempre! Il mio amore!

Avevo fallito di nuovo. Sentii le urla degli altri e lo scalpiccio dei loro passi nella corsa verso di lei. Maledizione! Con le lacrime agli occhi accesi il motore, girai il volante e tornai verso casa.

Ancora una volta non avevo ottenuto nulla, ma forse stavo capendo.

Mi sentivo sempre peggio. Non riconobbi neanche il volto dello zombie riflesso nello specchietto retrovisore e distolsi lo sguardo per la paura e il disgusto.

Allora decisi di informare Lei.

Le ho scritto perché è un giornalista ed ex compagno di università di mio fratello, pregandola di venire qua all'autofficina di domenica pomeriggio, perché Lei faccia da oggettivo testimone di questa storia. E la racconti. E perché avevo bisogno di parlare con qualcuno.

Ora Lei mi vede, ho ultimato tutto e mi appresto per la maledetta ennesima volta a tirare la leva che mi farà tornare indietro. No! Non si allontani, il disgusto per la mia figura l'ha già superato e in più non c'è pericolo, tranne che per me, non si allarmi.

E mi raccomando, scriva tutto fino in fondo. Sia preciso.

So che anche questa volta non servirà a nulla. Non salverò il mio amore dalla morte e un'altra parte di me se ne andrà, consumando la mia vita un altro po'.

Ma vede, ho finalmente capito.

Si è chiesto perché ci impiego sempre due giorni, due maledetti giorni, a costruire la Macchina e non posso tornare indietro che di altri due soli dannati giorni?

Il motivo è la legge di compensazione.

Esiste una legge di compensazione nell'Universo, o la chiami legge di conservazione dell'energia o come diavolo vuole, legge che non si può violare, purtroppo, neanche sfidando e vincendo le leggi del tempo.

Mi sono reso conto di non poter interagire in alcun modo direttamente con quello che è già avvenuto per cambiarlo. Il flusso temporale non può essere alterato.

Ma il modo di salvare il mio amore c'è: non si può prendere nulla, se non dandone l'equivalente in cambio. L'Universo, a ogni tentativo, pretende la sua parte. In cambio, si sta prendendo me, un pezzo alla volta.

Quindi sta avvenendo uno scambio: la mia vita in cambio della sua, in una sorta di compensazione energetica, di bilancio. E il mio aspetto consumato ne è la dimostrazione.

E, quando avrò finito di consumarmi, allora lo scambio sarà avvenuto. Il mio amore e la mia rabbia sono l'energia di scambio. Allora probabilmente la passeggiata sulla statale della ragazza che amo non sarà mai avvenuta e io non sarò mai esistito, oppure a morire come un cretino sarò io o chissà. Ma comunque il bilancio energetico del tempo, la sua entropia, saranno salvi. E, molto probabilmente, anche per Lei tutto ciò non sarà mai avvenuto. O forse sì.

No, non cerchi di fermarmi, quello che ho innescato è un processo irreversibile. Solo un processo irreversibile può contrastarne un altro tale, come la morte.

Addio, o meglio a domenica, quando, ricevuto il mio biglietto, sarà di nuovo qua. Di nuovo ignaro dapprima e poi sconvolto, una domenica dietro l'altra per Lei, a differenza che per me, sempre nuova.

Amo dunque sono.

Per sempre.

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