Le impronte digitali dallo spiritismo preistorico alle moderne indagini di polizia

a cura di Gianluca Turconi

Le impronte digitali sono un metodo affidabile per identificare una persona. Per questo motivo esse hanno sostituito altri metodi di identificazione di persone accusate di crimini o già arrestate in precedenza sotto nomi diversi, modo molto semplice e largamente utilizzato in passato per non farsi riconoscere come criminali recidivi. Ciò è vero almeno quando i servizi di rilevamento delle impronte digitali utilizzano determinati standard, linee guida e protocolli per avere uno strumento efficace di riconoscimento. Le linee su un’impronta digitale rappresentano le creste della pelle e gli spazi vuoti sono i solchi. Analizzandole, si può notare che alcune creste terminano bruscamente, altre si biforcano o si incrociano e alcune creste hanno la forma di laghi o isole. Queste sono chiamate “caratteristiche delle creste” e il loro studio serve per determinare l’identità dell’individuo a cui appartengono le impronte digitali.

Immagine di impronta digitale con dettagli in evidenza - Immagine rilasciata sotto licenza Creative Commons Attribution-Share Alike 3.0 Unported, fonte Wikimedia Commons, utente Safran

Immagine di impronta digitale con dettagli in evidenza.

Tale studio scientifico è noto come dattiloscopia.

La storia di questo mezzo d’indagine è molto ricca, poiché il suo impiego fu ampiamente discusso e valutato nel corso degli anni. Ciò che alcuni non sanno è che da molti secoli le impronte digitali o altri segni di riconoscimento sulla pelle, per esempio le cicatrici, vengono utilizzate come simboli ancestrali o religiosi.

Dopo questa doverosa introduzione, torniamo indietro nel tempo per analizzare quali utilizzi abbia fatto l’essere umano delle impronte digitali.

Preistoria e prime evidenze storiche

Incisioni sulle pareti di grotte preistoriche trovate in Nuova Scozia, Canada, mostrano una mano con disegni di creste cutanee riportate su di essa in modo grossolano. È il primo esempio di “identificazione” di una mano tramite le sue impronte digitali, sebbene non si sia certi che tali creste siano la riproduzione di quanto visibile su una persona realmente esistita e non siano invece frutto della fantasia dell’artista che realizzò tali incisioni. Altri esempi di manufatti antichi noti per avere disegni di creste cutanee sono collocati nella Tomba di Gavrinis, presente sull’omonima isola situata a largo della Bretagna nella Francia nord-occidentale, e i reperti megalitici della Tomba di Newgrange, situata nella regione di Bru na Boinne, nella contea di Meath in Irlanda. In quest’ultimo caso, risalente almeno al III millennio avanti Cristo, le impronte digitali riportate sulla pietra appartengono a un più vasto complesso funerario e si devono considerare legate allo spiritismo e in senso lato alla religione.

Invece, molto più vicine all’utilizzo moderno sono le impronte digitali rinvenute su tavolette di argilla di transazioni commerciali a Babilonia e in Cina. In un antico contratto di prestito cinese, ormai noto da 1200 anni, l’impronta di un dito alla sua fine fu utilizzata al posto della firma per identificare l’obbligato alla restituzione e l’autenticità del documento. Ciò indica che si conosceva l’aspetto univoco delle impronte digitali migliaia di anni prima che ne venisse compreso il potenziale in ambito investigativo.

Dall’ultimo periodo precristiano alla prima età moderna

La civiltà cinese fu la prima a usare in maniera approfondita le impronte digitale in ambito investigativo criminale. Il primo esempio proviene da un testo cinese intitolato “L’investigazione del crimine” risalente alla dinastia Jin (221-206 a.C.). Questo documento contiene una descrizione dell’uso delle mani come forma di prova. Inoltre, le impronte digitali su timbri in ceramica sono un chiaro esempio di riproduzione della pelle per attrito come tecnica di individuazione.

Dopo l’invenzione della carta da parte dei cinese Tsai Lun nel 105 d.C., le creste cutanee furono utilizzate per firmare i documenti in maniera formale. In Cina divenne di pratica comune incidere i segni del palmo della mano, della falange (l’articolazione delle dita inferiori) e le impronte digitali su tutti i contratti. Nel 650 d.C., lo storico cinese Kia Kung-Yen descrisse un mezzo d’identificazione usato in precedenza: “Le tavolette di legno venivano iscritte con i termini del contratto e sui lati venivano praticate tacche negli stessi punti, in modo che le tavolette potessero essere successivamente confrontate, dimostrando così la loro autenticità. Il significato delle tacche era lo stesso delle impronte digitali di oggi”.

L’uso delle impronte cutanee per attrito in Cina continuò fino alla dinastia Tang (617-907 d.C.), come si può vedere nei contratti fondiari, nei testamenti e nei registri dell’esercito. Si può ipotizzare che, poiché i cinesi utilizzavano le creste cutanee sui contratti e commerciavano con altre nazioni dell’Asia, queste ultime potrebbero aver adottato la medesima pratica, sebbene non vi siano prove documentali. Tuttavia, dopo circa un millennio, troviamo in India riferimenti all'uso delle impronte digitali come firma. La stampa in India era riservata soprattutto ai ranghi più elevati anche per l’alto costo della procedura e della carta usata per i contratti. Nello stesso periodo, l’uso della pelle del dorso della mano come caratteristica di riconoscimento è molto ben documentato in Cina, Giappone e altri Paesi dell’area asiatica prima della scoperta europea. Nel 1684, il botanico olandese Nehemiah Grew scrisse un articolo sulle sue osservazioni dei modelli e delle disposizioni delle dita e dei palmi delle mani. Nel 1685, Govard Bidloo, un anatomista anch’egli olandese, pubblicò Anatomia del corpo umano che includeva dettagli sulla pelle e sulle creste del pollice, ma non affrontava il tema dell’identificazione o della permanenza delle impronte sulle superfici.

Nonostante tutto ciò, l’utilizzo delle impronte digitali come mezzo di riconoscimento non ebbe subito largo impiego, in quanto anche personaggi di rilevante spessore scientifico come il medico e biologo italiano Marcello Malpighi (1628-1694) non le riteneva adatte per l’identificazione univoca di un essere umano. L’italiano fu comunque importante nell’evoluzione delle tecniche di utilizzo delle impronte perché notò che la pelle a creste aumentava l’attrito tra un oggetto e la superficie della pelle stessa, sebbene facesse più riferimento a questa caratteristica per camminare e afferrare.

Si dovrà attende il 1788 prima che l’unicità delle impronte digitali venga riconosciuta in Europa. Christoph Andreas Mayer, medico e anatomista tedesco, produsse un’opera contenente disegni dettagliati dei modelli di pelle a creste d’attrito. Mayer scrisse: “Sebbene la disposizione delle creste cutanee non sia mai duplicata in due persone, tuttavia le somiglianze sono più strette tra alcuni individui; in altri le differenze sono marcate, ma nonostante le loro peculiarità di disposizione tutti hanno una certa somiglianza”.

Il grande boom scientifico del XIX secolo

Nel 1818 Thomas Bewick, incisore, autore e naturalista inglese, utilizzò le incisioni delle proprie impronte digitali per firmare le sue opere. È possibile che Bewick sia stato uno dei primi a riconoscere l’individualità delle impronte digitali, almeno dall’uso che ne fece. Successivamente, Johannes E. Purkinje, professore di anatomia all’Università di Breslau, in Germania, presentò una tesi di laurea nel 1823 nella quale descrisse nove tipi di modelli di dita. Tuttavia, come Marcello Malpighi prima di lui, non ne suggerì l’uso per l’identificazione personale.

Nel 1858 arrivò il primo rivoluzionario impiego delle impronte digitali in ambito forense. In quell’anno, un inglese di nome William Herschel era in carica come magistrato capo del distretto di Hooghly a Jungipoor, in India. Per ridurre le frodi, chiese ai residenti di apporre le loro impronte digitali quando firmavano documenti commerciali. Egli introdusse la fotografia delle creste di attrito come tecnica separata nel 1877. In seguito, il 15 agosto 1877, Herschel scrisse una lettera nota come “Lettera di Hooghly” al Primo Ministro e al Conservatore del Bengala, spiegando il suo punto di vista e incoraggiando altri a continuare a rilevare le impronte digitali.

Anni dopo, il medico scozzese Henry Faulds, mentre lavorava in Giappone, scoprì le impronte digitali lasciate dagli artisti su antiche sculture di argilla. Questa scoperta lo ispirò a iniziare una ricerca sulle impronte digitali. Nel 1880 Faulds scrisse al famoso naturalista Charles Darwin, chiedendo il suo aiuto per sviluppare un sistema di classificazione delle impronte digitali. Darwin accettò, ma inviò la lettera anche a Sir Francis Galton, di cui parleremo in seguito, e quella missiva avrebbe cambiato profondamente l’approccio investigativo alle impronte digitali.

Louis-Alphonse Bertillon in una fotografia segnaletica usata per il suo metodo antropometrico - Immagine in pubblico dominio, fonte Wikimedia Commons, utente OxIxO

Louis-Alphonse Bertillon in una fotografia segnaletica usata per il suo metodo antropometrico.

Nel frattempo, nel 1879, il medico e antropologo francese Louis-Alphonse Bertillon iniziò a studiare le misure corporee di diverse persone e sviluppò metodi antropometrici – l’antropometria è un approccio scientifico all'identificare degli esseri umani – utilizzati per la prima volta nel 1882. Dopo aver effettuato con successo il test e il rilevamento delle strie di attrito della pelle, le impronte digitali venivano aggiunte ai dati antropometrici. Il sistema, nel complesso, prevedeva 11 misure corporee, 2 foto (fronte e lato destro) e un totale di 10 impronte digitali. Questo metodo, denominato Bertillonage, ebbe un certo impiego in ambito investigativo in Francia negli ultimi due decenni del XIX secolo.

Successivamente, Kollmann studiò lo sviluppo delle creste della pelle nell’embrione. Si scoprì così che le creste stesse si formano per pressione a partire dal quarto mese di gravidanza. Lo scienziato francese René Forgeot pubblicò nel 1891 una teoria che suggeriva l’uso di polveri e sostanze chimiche per rilevare le impronte nei casi criminali e identificare le vittime. Ormai gli strumenti di classificazione, comparazione e identificazione delle impronte digitali erano disponibili, andavano solamente uniti in un sistema organico. Si dovette però attendere il 1892 per veder pubblicata la prima monografia sull’argomento, scritta dal già richiamato Sir Francis Galton e intitolata con poca fantasia “Impronte digitali”. Fu grazie al suo approccio strettamente scientifico alla rilevazione e comparazione delle impronte digitali che esse poterono venir usate come strumenti d’investigazione forense.

L’opera di Galton fu la base dello sviluppo delle tecniche investigative poste in essere dall’intraprendente detective argentino Juan Vucetich che iniziò a prendere le impronte digitali dei criminali e a sviluppare un proprio metodo di identificazione. Sempre nel corso dell’anno 1892, un omicidio a Buenos Aires, in Argentina, fu risolto grazie alle impronte digitali trovate sulla scena del crimine. Infatti, un uomo confessò l’omicidio quando durante il processo furono presentate come prova le sue impronte digitali trovate su una porta insanguinata. Dopo tale successo, l’Argentina fu il primo Paese ad affidarsi interamente alla rilevazione delle impronte digitali in ambito investigativo.

Nel 1894, Sir Edward Richard Henry, Commissario di Polizia del Basso Bengala, discusse i metodi di identificazione delle impronte digitali di Galton. Alla fine di marzo 1897 fu presentato al governo indiano il seguente rapporto: “Infine, riteniamo che il metodo digitale utilizzato nel Bengala - scattare fotografie e classificare le persone - sia migliore dei metodi tradizionali”. Poi, qualche mese più tardi, il governo indiano permise l’uso delle impronte digitali per identificare i prigionieri. Il primo caso indiano che si concluse con una condanna basata sulle impronte digitali fu l’assassinio del direttore di una piantagione di tè nel distretto di Zulpaiguri, in Bhutan. Il colpevole fu identificato in un ex dipendente che aveva lasciato le proprie impronte sulla scena del delitto.

Nel dicembre del 1900, il Comitato Belper in Inghilterra, guidato da Lord Belper, raccomandò che tutti i processi penali fossero basati sul sistema digitale che alla fine fu adottato da molti Paesi anglofoni.

Applicazione del metodo digitale su larga scala nel XX secolo

Nel 1901, le impronte digitali furono introdotte per la prima volta come prova nei tribunali inglesi. Dall’altra parte dell’Oceano Atlantico, nel 1903 le carceri dello stato di New York introdussero l’uso delle impronte digitali, seguite dall’FBI. Sebbene il sistema di classificazione americano non fosse accettato a livello investigativo, la scienza delle impronte digitali si diffuse presto in tutto il Paese proprio per la soluzione di casi criminali.

Nello stesso periodo in India, nel caso Emperor v. Abdul Hamid del 1905, si decise che non era necessario che un esperto testimoniasse sull’autenticità del reperto digitale e la Corte d’Appello fu d’accordo. Tuttavia in ambito statunitense, la conferma di esperti divenne la regola d’oro in ambito criminale sulle impronte digitali. In un caso, il sospettato di omicidio Thomas Jennings fu condannato dopo la testimonianza di quattro esperti che individuarono le sue impronte digitali su una ringhiera di un portico sulla scena del crimine. Le impronte digitali non erano comunque l’unica prova a carico. Anche altre prove incriminarono l’imputato, come la vicinanza di Jennings alla scena del crimine dopo l’omicidio, mentre portava con sé una pistola appena usata contenente cartucce simili a quelle trovate sulla scena del crimine. La difesa fece ricorso in appello, sostenendo che la prova delle impronte digitali era stata ammessa impropriamente e che fosse un errore utilizzare un testimone esperto in impronte digitale anziché lasciar apprezzare il valore della prova alla giuria. Il parere espresso dalla Corte d’Appello dell’Illinois confermò invece la condanna, rigettando il ricorso della difesa e riconoscendo di conseguenza l’ammissibilità e validità della prova basata sulle impronte digitali.

Il fondamento di questa sentenza epocale risiedeva nella constatazione che l’analisi delle impronte digitali non rientrava nella normale esperienza dell’uomo comune e perciò una giuria non poteva valutarle come prova se non dietro testimonianza in merito di un esperto. La Corte d’Appello stabilì quindi che l’analisi delle impronte digitali come mezzo di prova era a tutti gli effetti una scienza di cui si doveva avere conoscenza professionale.

Nel 1911, il tenente Joseph Faurot, un esperto di impronte digitali del Dipartimento di Polizia di New York, presentò una testimonianza in un caso di furto con scasso che prevedeva l’analisi di impronte digitali. Il caso People v. Crispi di quell’anno divenne così il primo negli Stati Uniti a coinvolgere la prova delle impronte digitali come evidenza principale per una condanna. Ben presto in ambito investigativo si procedette oltre il semplice utilizzo delle impronte digitali, approfondendo aspetti inaspettati della neonata branca scientifica. Per esempio, in un articolo di Locard del 1914 e in altri pubblicati subito dopo, si approfondì la teoria della poroscopia (analisi dei pori del sudore delle creste cutanee), evidenziando come l’uso dei pori potesse integrare il confronto delle impronte digitali fornendo dati di supporto.

Appena quattro anni più tardi, nel 1918, Harris Hawthorne Wilder e Bert Wentworth (commissario di polizia di Dover, New Hampshire) collaborarono alla pubblicazione di Personal Identification: Methods for the Identification of Individuals, Living or Dead, esemplificando come, attraverso uno sforzo congiunto, i campi della scienza e delle forze dell’ordine potessero funzionare insieme. Nel loro libro, Wilder e Wentworth affermarono: “I modelli di impronte digitali sono individuali e, nel loro insieme, impossibili da duplicare in un altro individuo”. Questa fu la prima ricerca scientifica a sostegno del fatto che i dettagli delle impronte digitali sono permanenti e unici.

L'investigatore argentino Juan Vucetich - Immagine in pubblico dominio, fonte Wikimedia Commons, utente File Upload Bot

L‘investigatore argentino Juan Vucetich.

A causa dell’uso delle creste cutanee come mezzo di identificazione dei detenuti, le carceri di tutti gli Stati Uniti acquisirono grandi collezioni di impronte digitali. Nel processo Stato contro Johnson (1938) si condannò per la prima volta un delinquente abituale utilizzando copie certificate delle impronte digitali presenti in tali archivi come prova d'identità, anziché richiedere ai funzionari di testimoniare in merito.

Le impronte digitali nel XX secolo cominciarono a essere utilizzate anche in ambiti non penali, come l’identificazione delle vittime di disastri naturali e incidenti. Il primo incidente negli Stati Uniti in cui l’individuazione delle impronte digitali ebbe un ruolo importante fu l’affondamento dell’U.S.S. Squalus, sottomarino tragicamente affondato il 23 maggio 1939.

Seguendo la lunga tradizione indiana, nel 1953 Salil Kumar Chatterjee (1905-1988) di Calcutta pubblicò il libro Finger, Palm, and Sole Prints che lo rese noto a livello internazionale. Tuttavia Chatterjee è più conosciuto per il suo articolo del 1962 “Edgeoscopy”, in cui descrisse la sua teoria sull’uso di forme specifiche dei bordi delle creste (dritte, convesse, a picco, a tavola, a tasca, concave e ad angolo) per integrare l’individuazione delle impronte digitali. Nel 1976, il giapponese Michio Okajima pubblicò l’articolo “Dermal and Epidermal Structures of the Volar Skin”. Il principale contributo del suo lavoro fu lo studio delle creste incipienti che appaiono come creste più piccole nelle impronte delle creste cutanee.

Ormai le impronte digitali erano divenute un metodo investigativo ineludibile.

La fine del XX secolo fu il periodo di maggior utilizzo delle impronte digitali in ambito forense, ma allo stesso tempo quegli anni videro l’ascesa di una tecnica scientifica che avrebbe spodestato le impronte digitali dal trono di tecnica principe per le investigazioni di polizia: l’analisi del DNA.

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