Storie di fantasmi scozzesi

Traduzione italiana a cura di Gianluca Turconi

Storie, racconti e altre testimonianze relative alla presenza di entità sovrannaturali sul territorio scozzese, raccolte personalmente da Elliott O'Donnell, autore tra gli altri dei libri "Alcune case infestate da fantasmi in Inghilterra e Galles", "Case infestate da fantasmi a Londra", "Fenomeni spettrali", "Vere storie di fantasmi" e "Le premonizioni e i loro significati".

Molti anni fa, incline a rivisitare il Porthshire, una località che ha avuto grande attrattiva su di me da ragazzo, risposi a un annuncio su un popolare settimanale femminile. Per quel che ricordo, era qualcosa del genere: "Camera confortevole offresi a signore scapolo, astemio e non fumatore a condizioni eque in casa di un'anziana signora delle Highland, presso Pitlochry."

L'ingenuità e l'originalità dell'annuncio mi piacque. L'idea di avere come vicino un giovane uomo che combinasse le virtù dell'astinenza dall'alcol e dal tabacco mi divertì parecchio. E persino scapolo! Forse intendeva farlo innamorare? La scaltra vecchietta! Si era presa la briga di inserire l'epiteto "anziana", per evitare sospetti. Non c'erano dubbi in proposito, desiderava il matrimonio. Essendo rimasta "scottata" da tutti gli uomini che al massimo le avevano dedicato un'occhiata, questa era la sua ultima risorsa, avrebbe intrappolato qualche incauto sconosciuto, un uomo danaroso naturalmente, e lo avrebbe convinto a sposarla. E sorsero davanti ai miei occhi visioni di un'alta, spigolosa, quarantenne zitella scozzese, con zigomi pronunciati, capelli biondicci e braccia muscolose, il tipo di donna che non avrebbe dovuto essere donna affatto, esattamente quello che mi fa accapponare la pelle. Ciononostante era Pitlochry, l'incantevole Pitlochry, e non c'era alcun altro annuncio per quella città. L'avrei soddisfatta sotto ogni aspetto tranne quello matrimoniale, non ne dubitai. In qualsiasi compagnia passo come astemio; non tollero il tabacco (almeno, è lui che non tollera me, che in fondo è la stessa cosa) e sono, o meglio posso essere, tollerabilmente amabile, se chi mi circonda non è infernale e non c'è alcun membro del Consiglio della Contea a distanza di tiro.

Per una volta, il mio istinto fece cilecca. L'inserzionista, Miss Flora Macdonald della casata di "Donald Murray", non somigliava ai miei preconcetti sotto alcun aspetto. Era di media altezza, corporatura graziosa, una creatura da fiaba vestita in frusciante seta, con fluenti capelli bianchi, brillanti occhi azzurri, lineamenti e mani delicati, la forma e snellezza delle quali me l'annunciò subito come una sensitiva. Mi salutò con tutta la solenne cortesia della Vecchia Scuola; i miei bagagli furono portati al piano superiore da un ragazzo che indossava il tartan dei Macdonald e la campana per il tè suonò per un'appetitosa portata di fragole e crema, pasticcini e deliziosi toast imburrati. Mi innamorai subito della mia ospite - sarebbe un vero sacrilegio designare una tale divina creatura col termine volgare di "padrona di casa". Quando le impressioni di qualcuno su un luogo sono esaltate dal principio, spesso, in seguito, sono soggette a essere egualmente ridimensionate. In questo caso, comunque, fu diverso. Il mio apprezzamento tanto per Miss Macdonald quanto per la sua casa crebbe quotidianamente. Il cibo era quanto di meglio si potesse desiderare e la mia camera, addolcita col profumo di gelsomino e rose, presentava un'immagine di tale delicata pulizia da risvegliare in me sentimenti di vergogna quando dovetti contaminarla con il mio polveroso equipaggiamento da viaggio. Mi lusingò che anch'io piacessi a Miss Macdonald. Che non mi vedesse come un tipo comune era fuori di dubbio ed era dovuto al fatto che lei fosse una Giacobita. E in una discussione sull'associazione del suo romantico nome, Flora Macdonald, col Perthshire, saltò fuori che i nostri rispettivi antenati avevano comandato dei battaglioni nelle famose brigate irlandesi e scozzesi di Luigi XIV. Quella scoperta accorciò le distanze. Non eravamo più padrona e affittuario, eravamo amici, amici per la pelle.

Mi viene un groppo alla gola nel scrivere queste parole, perché è da poco che ho saputo della sua morte.

Una settimana circa dopo che mi ero sistemato nella sua casa, mi presi una pausa, su suo suggerimento (e, devo concordare con lei, era una pausa necessaria) dalla mia attività di scrittore. Era una brillante notte di luna piena. Non una nuvola nel cielo e il paesaggio era visibile quasi si fosse in pieno giorno. Me ne andai in bicicletta e dopo una faticosa ma divertente pedalata, alla fine mi fermai sulla strada superiore, un miglio o due dalle prime luci di Pitlochry. Mi bloccai non a causa della fatica, in quanto ero ancora quasi fresco come quando ero partito, ma perché ero estasiato dalla deliziosa atmosfera e volevo imprimermela bene nella mente prima di andarmene a letto. Mi ero fermato su un appezzamento triangolare d'erba all'incrocio tra quattro strade. Appoggiai la mia bici contro una siepe, sistemai la schiena contro un cartello stradale e la mia faccia nella direzione da cui ero venuto. Rimasi in quella posizione per qualche minuto, probabilmente dieci, ed ero in procinto di rimontare sulla mia bicicletta quando improvvisamente mi assalì un freddo glaciale e un orribile e spaventevole terrore mi afferrò e prese il controllo di me in maniera così forte che la bici, scivolando dalle mie mani paralizzate, cadde a terra con fragore. L'istante successivo, qualcosa - vi giuro sulla mia vita, non so cosa, il suo profilo era così confuso e indefinito - si accese nello spazio aperto davanti a me con un tonfo leggero e rimase fermo come un pilastro cilindrico. Da lontano, arrivò poi un basso brontolio di ruote che crebbe momentaneamente d'intensità fin quando rimbombarono alla vista di un carro, appesantito da una mostruosa quantità di fieno, sul quale sedeva un uomo con un cappello a tesa larga, impegnato a confabulare con un ragazzo in pantaloni di velluto a coste che era stravaccato dietro di lui. Il cavallo, alla vista della cosa immobile davanti a me, si bloccò subito e nitrì violentemente. L'uomo gridò:

- Ehi, ehi, che ti prende, bestia! - E poi, con isterico stridore: - Buon Dio! Che è quell'affare? Dimmi, Tammas, che è quella roba?

Il ragazzo si alzò immediatamente sulle ginocchia e, afferrando il braccio dell'uomo, urlò: - Non lo so, non lo so, Matthew! Ma dammi retta, amico, che non mi tocchi! È qui per me, mi sta inseguendo!

La luce lunare era così forte che le facce dei due mi si rivelarono con straordinaria vivezza e le loro espressioni inorridite erano più sconvolgenti della silente e spettrale figura dell'Ignoto. La scena mi ritorna alla mente, qui, nella mia piccola stanza a Norwood, con ogni suo dettaglio chiaramente marcato come in quella notte in cui accadde per la prima volta. La lunga catena di montagne a forma di cono, sagomate cupamente contro il cielo argentato, e apparentemente piena di aspettative; la superficie a scaglie scintillanti di qualche torrente o fiume, percepibile solo a intervalli, dietro alla spessa sagoma appena accennata di pini gentili; i muri dipinti di bianco dei cottages, luccicanti in mezzo alla densità verde scuro degli alberi, e il leggero, piumato fogliame di un dorato maggiociondolo; i prati ondulati, cosparsi di ginestre e grottescamente ammuffite rupi di granito; le straordinariamente bianche strade, ricoperte di ghiaia; tutto, proprio tutto era sopraffatto dal silenzio, un silenzio che apparteneva unicamente alle montagne, agli alberi e alle pianure, il silenzio dell'ombra. Ho persino contato i bottoni, sui cappotti rustici - uno mancava da quello dell'uomo, due da quello del ragazzo - e ho persino notato le macchie di sudore sotto le ascelle della maglietta di Matthew e gli strappi della camicia di Tammas. Ho annotato tutte queste trivialità e altre ancora. Ho visto l'improvviso alzarsi e abbassarsi del petto dell'uomo quando il suo respiro ne uscì a sobbalzi; il rivolo di saliva che fluì dalle sue labbra a chiazze nerastre e discese verso il mento; ho visto le sue mani - dell'uomo, con dita squadrate, dalle unghie nere, con grandi venature, brillanti di sudore e avvinghiate strenuamente alle redini; quelle del ragazzo, più piccole e persino più sudate, una schiacciata sul fieno, l'altra protesa di fronte a lui, il palmo disteso verso l'esterno con tutte le dita separate.

E mentre questi minuti particolari si facevano strada fin nella mia anima, la loro causa - l'indefinibile, esoterica colonna - rimase silente e immobile sopra la siepe, emanando un funesto bagliore.

Il cavallo ruppe improvvisamente l'incantesimo. Gettando la testa in avanti, si diede al galoppo e, correndo all'impazzata oltre il fantasma, discese confuso la strada alla mia destra. Allora vidi Tammas fare una capriola, salvandosi miracolosamente dal cadere di testa sulla strada. Fece rimbalzare la forca che si andò a incastrare in verticale nel fieno, mentre la figura, che li inseguiva a grandi passi, stava apparentemente tentando di acchiapparlo con le sue braccia da ragno. Ma se successe o no, non saprei dirlo, perché ero così spaventato che potesse ritornare da me che montai sulla mia bicicletta e pedalai veloce come non avevo mai fatto in vita mia, per fuggire.

Al mio ritorno, descrissi l'incidente a Miss Macdonald. Lei mi guardò molto seriamente.

- E' stato stupido da parte mia non avvertirti - disse - che quel particolare luogo sulla strada ha sempre, almeno per quel che ricordo, avuto la reputazione di essere infestato da fantasmi. Nessuno dei contadini qua attorno si avventurerebbe entro un miglio da esso dopo il tramonto, perciò i carrettieri che hai visto dovevano essere forestieri. Nessuno ha mai visto il fantasma se non nella forma indistinta in cui ti è apparso. Non frequenta il posto tutte le notti, ma appare periodicamente e non cambia mai metodo. Salta sopra una siepe o un muro, rimane poi stazionario finché qualcuno non si avvicina e poi lo insegue con balzi mostruosi. La persona che viene toccata muore immancabilmente entro un anno. Mi ricordo bene quando ero adolescente, in una notte come questa, e stavo tornando a casa con mio padre dal croquet party di Lady Colin Ferner, a Blair Atholl. Quando arrivammo al luogo che mi hai indicato, il cavallo scartò e prima che potessi rendermi conto di ciò che era accaduto, stavamo correndo verso casa a una velocità terrificante. Mio padre e io sedevamo davanti, mentre lo stalliere, un ragazzo delle Highland proveniente dalla valle di Ben-y-gloe, dietro. Non avendo mai visto mio padre spaventato, la sua agitazione mi terrorizzò orribilmente, tanto più in quanto il mio istinto mi disse che era causata da qualcosa di diverso dalla mera fuga del cavallo. Ne capii presto i motivi. Una gigantesca figura, a grandi passi, improvvisamente ci sorpassò e, protendendo le sue braccia lunghe e sottili, toccò leggermente mio padre sulla mano e poi, con un grido duro, più simile a quello di un animale che non di un essere umano, scomparve. Nessuno di noi parlò finché raggiungemmo casa - non abitavo qui allora, ma in una casa all'altro lato di Pitlochry - quando mio padre, che era ancora bianco come un cencio, mi prese da parte e mi sussurrò: 'Qualunque cosa avvenga, Flora, non dire una parola di quanto accaduto a tua madre e non lasciarla mai andare di notte lungo quella strada. Quella era la danza macabra. Dovrò morire entro dodici mesi.' E morì veramente.

Miss Macdonald fece una pausa. Ci fu un momento di silenzio, poi continuò con la sua usuale vivacità: - Non posso descrivere quella entità più di quanto lo abbiate fatto voi, eccetto per il fatto che mi diede l'impressione di non avere occhi. Ma cosa fosse, fantasma di un uomo, donna o qualche particolare bestia, non posso assolutamente dirlo. Ora, Signor O'Donnell, ne avete avuto abbastanza d'orrore per questa sera o ne volete sperimentare un altro?

Sapendo che dormire era decisamente fuori questione, e che un brivido o due in più non avrebbe fatto alcuna differenza per i miei nervi già scossi, replicai che avrei ascoltato volentieri qualsiasi cosa avesse avuto da raccontarmi, per quanto fosse orribile. Ottenuto il mio consenso, Miss Macdonald, non senza, notai, qualche occhiata apprensiva alle tende fruscianti, cominciò il suo racconto che faceva, per quel posso ricordare, come segue:

Esisteva una volta una casa chiamata la Old White House che sorgeva a lato della strada, vicino a dove voi mi avete detto che il cavallo si è spaventato. Alcune persone di nome Holkitt, imparentate col vecchio caro Sir Arthur Holkitt, e nostri grandi amici, vi abitavano. La casa, come si credeva popolarmente, era stata costruita su un antico terreno di sepoltura. Tutti erano soliti dire che fosse infestata e gli Holkitt avevano grossi problemi nel trovare qualcuno che vi lavorasse. L'aspetto della casa infestata non era da meno della reputazione. Per via delle sue mura grigie, del giardino triste, del salone tetro, dei corridoi e delle scale bui e delle soffitte sinistre non poteva che essere il più suggestivo dei fenomeni spettrali. Inoltre, l'intera atmosfera del luogo, non importa quanto fosse luminoso e caldo il sole, era fredda e tetra, e costituiva una costante fonte di sorpresa come Lady Holkitt potesse viverci. Lei era, comunque, sempre sorridente e aveva l'abitudine di raccontarmi che niente l'avrebbe indotta a lasciare quel posto così caro a tante generazioni della sua famiglia e associato con i più felici ricordi della sua vita. Me la ricordo solo da quando era diventata vedova. Suo marito, un maggiore negli Highlander di Gordon, era morto in India prima della mia nascita. Aveva due figlie, Margaret e Alice, entrambe considerate molto belle, di qualche anno più grandi di me. Questa differenza di età non ci impedì comunque di divenire amiche e perciò ero costantemente invitata a casa loro, in estate per il croquet e il tiro con l'arco, in inverno per le feste. Come molte donne anziane di quel periodo, Lady Holkitt era molto appassionata dei giochi con le carte e lei e mia madre giocavano frequentemente a bazzica e cribbage, mentre le ragazze e io indulgevamo in qualcos'altro di più frivolo. In quelle occasioni passavano a prenderci sempre intorno alle ventidue, poiché mia madre per una ragione o per l'altra - ho il marcato sospetto fosse per via delle apparizione di cui abbiamo parlato - non voleva mai tornare a casa dopo quell'ora. Quando accettava un invito per una festa, era sempre condizionato a che Lady Holkitt ci ospitasse per la notte e rientrassimo il giorno seguente subito dopo pranzo, all'una del pomeriggio. Non dimenticherò mai l'ultima volta che andai a un ballo alla Old White House, sebbene siano ormai passati cinquant'anni. Mia madre non era stata bene per qualche settimana a causa dell'influenza. Non aveva voluto farsi visitare da un dottore, in parte perché non si sentiva abbastanza male e in parte perché l'unico uomo che sapesse di medicina nelle nostre vicinanze era un farmacista, della cui capacità aveva ben scarsa considerazione. Mia madre si era quasi decisa ad accompagnarmi al ballo, ma all'ultimo momento, a causa delle pessime condizioni del tempo, dovette desistere e mia zia Norah che si trovava da noi al tempo, mi accompagnò al suo posto. Nevicava quando uscimmo e andò avanti per tutta la notte e il giorno successivo, cosicché dovemmo rimanere alla Old White House dal lunedì sera fino al giovedì seguente. Zia Nora e io occupavamo due stanze differenti e la mia era alla fine di un lungo corridoio distante da chiunque altro nella casa. Prima di quell'occasione, mia madre e io avevamo sempre condiviso una stanza, l'unica davvero confortevole, secondo me, in quella casa, che dava sul giardino anteriore. Ma essendoci parecchi ospiti quella volta, rimasti fino a tardi come noi, dovemmo stringerci ovunque fosse possibile. E avendo mia zia e io due stanze separate, fu abbastanza naturale che a lei spettasse la più grande e confortevole. Di conseguenza, lei fu alloggiata nell'ala dove tutti i visitatori dormivano, mentre io fui obbligata in un corridoio dall'altra parte della casa, dove, a eccezione della mia stanza, non c'era niente tranne qualche ripostiglio. Tutto andò per il meglio e niente interruppe l'armonia della nostra visita fino alla notte prima del nostro ritorno a casa. Avevamo cenato e Margaret e io stavamo salendo le scale per andare a letto quando Alice, che era corsa di sopra prima di noi, tornò indietro con una faccia stravolta.

- Oh, presto, venite nella mia stanza! - gridò. - Sta succedendo qualcosa a Mary. - Mary era una delle cameriere di casa.

Entrambe l'accompagnammo e, nell'entrare nella sua stanza, trovammo Mary seduta su una sedia, che singhiozzava istericamente. Bastava guardare la ragazza per vedere che era sotto shock. Sebbene normalmente fosse una persona sicura e in salute, l'ultima che si potesse facilmente turbare, era ora sbiancata in volto e le pupille erano dilatate per il terrore, mentre l'intero corpo, dalla punta dei capelli a quella dei piedi, era scosso come se fosse affetta dalla malaria. Fui sconvolta dal vederla in quello stato.

- Che hai, Mary? - esclamò Margaret. - Che succede?

- È la candela, signorina - si affannò la ragazza. - La candela nella stanza di Miss Trevor. Non riesco a spegnerla.

- Non riesci a spegnerla? Perché? Non ha senso - disse Margaret. - Sei impazzita?

- È vero come il fatto che sono seduta qui - ansimò Mary. - Ho messo la candela sulla mensola del caminetto mentre riassettavo la camera e quando ho finito e mi sono avvicinata per spegnerla, non ci sono riuscita. Ho soffiato, soffiato e soffiato, senza alcun effetto e allora mi sono spaventata, signorina. Mi sono spaventata terribilmente. - E qui seppellì il viso tra le mani e tremò. - Non mi sono mai spaventata così, prima - riprese lentamente. - Sono venuta via e ho lasciato bruciare la candela.

- È stato stupido da parte tua - si lamentò Margaret. - Dobbiamo spegnerla subito. Avevo idea di farti venire con noi, Mary, ma per carità! Rimani qui e per l'amor del cielo smettila di frignare o tutti in casa ti sentiranno.

Così dicendo, Margaret si mosse, Alice e io l'accompagnammo, e nell'arrivare fuori la stanza, la cui porta era spalancata, vedemmo la candela nell'esatta posizione che Mary aveva descritto. Guardai le ragazze e percepii, nonostante il mio sforzo di non farlo, gli inequivocabili segni di un grande timore, timore di qualcosa, che sospettavamo ma che non osavamo nominare, proprio nella vista periferica dei nostri occhi.

- Chi va per prima? - domandò Margaret. Nessuno rispose.

- Be', allora - continuò lei - andrò io. - E facendo seguire l'azione alle parole, provò a varcare la soglia. Nel momento in cui tentò, la porta si chiuse. - Questo è strano! - gridò. - Spingete!

Lo facemmo, tutte e tre spingemmo, ma nonostante i nostri sforzi, la porta non si mosse e noi rimanemmo chiuse fuori. Prima che avessimo il tempo di riaverci dallo sforzo, la porta si aprì all'improvviso, ma non potemmo entrare, perché essa si richiuse violentemente nello stesso modo in cui era avvenuto in precedenza. Qualche forza invisibile la spingeva contro di noi.

- Proviamoci ancora - disse Margaret - e se non ci riusciamo, chiederemo aiuto.

Obbedendo alle sue istruzioni, spingemmo ancora una volta. Io ero la più vicina alla maniglia e in qualche modo, come nessuno di noi seppe spiegarlo, non appena la porta si aprì di propria volontà, io scivolai dentro. La porta si richiuse immediatamente con un tonfo e mi ritrovai sola nella stanza. Per alcuni secondi rimasi immobile e non potei neppure raccogliere i miei pensieri per rispondere alle suppliche pietose delle Holkitt che continuavano a picchiare sulla porta implorandomi di dire loro cosa stesse accadendo. Nemmeno nel mezzo del peggior incubo sperimentai un terrore più profondo di quello che la stanza produsse in me. Sebbene non si vedesse nulla, niente tranne la candela, la luce della quale era particolarmente bianca e vibrante, sentii la presenza di qualcosa inespressivamente minaccioso e orribile. Era nella luce, nell'atmosfera, nei mobili, ovunque. Era tutto intorno a me, ero minacciata da ogni lato, minacciata in un modo inconsueto e mortale. Qualcosa mi suggerì che la fonte del male avesse origine nella candela e che se fossi riuscita a spegnerne la fiamma mi sarei liberata da quella presenza spettrale. Avanzai verso la mensola e, prendendo un profondo respiro, soffiai con l'energia nata dalla disperazione. Non sortì alcun effetto. Riprovai. Soffiai freneticamente, ma senza successo. La candela bruciava ancora, lentamente e un po' fumosa. Allora il panico si impadronì di me e, fuggendo dall'altro lato della stanza, mi voltai contro il muro e attesi ciò che i battiti impazziti del mio cuore mi avvisavano sarebbe arrivato. Mi costrinsi a guardare e molto, molto lentamente mi girai e là, fluttuante attraverso l'aria diretta verso di me, arrivò la candela, la vibrante, luminosa, pericolosa candela. Mi rigirai di nuovo contro il muro e pregai Dio di farmi almeno svenire.

Più si avvicinava la luce, più selvaggi si fecero gli strattoni alla porta, più vicino mi spinsi contro il muro. E allora, quando gli spasimi di quell'agonia superarono quanto il cuore e il cervello umano potevano sopportare, arrivò il sospetto, la suggestione di un tocco così orribile che le mie preghiere infine furono esaudite e svenni.

Quando mi ripresi, ero nella stanza di Margaret e mezza dozzina di visi ben conosciuti si erano raccolti intorno a me. Sembra che col collasso del mio corpo sul pavimento, la porta che aveva resistito così efficacemente agli sforzi di girarne la maniglia, si fosse aperta immediatamente e mi avessero ritrovato distesa a terra con la candela, ancora accesa, vicino a me. Mia zia non aveva avuto alcuna difficoltà a spegnerla e io ero stata trasportata con la massima cura nell'altra ala della casa, dove avevo dormito quella notte. Si discusse poco sull'accaduto il giorno seguente, ma tutti quelli che ne furono informati espressero sui loro volti la massima ansietà che, una volta che mi fui ripresa, mi confuse. Al ritorno a casa, mi aspettava un altro shock. Con sgomento scoprimmo che mia madre era seriamente malata e che il dottore, appositamente arrivato da Perth la sera precedente, proprio all'ora della mia avventura con la candela, aveva affermato che avrebbe potuto non sopravvivere a quella giornata. La sua previsione si avverò, lei morì al tramonto. La sua morte, naturalmente, potrebbe non avere nulla a che fare con l'episodio della candela, ma mi colpì la strana coincidenza e mi sembrò tutto molto più strano dopo l'episodio della danza macabra che toccò mio padre sulla strada, così vicino al luogo dove una volta sorgeva la casa degli Holkitt. Non ho potuto scoprire se Lady Holkitt o le sue figlie abbiano mai visto qualcosa di natura soprannaturale nella loro casa; dopo la mia esperienza, furono sempre molto reticenti sull'argomento e, naturalmente, non volli insistere. Alla morte di Lady Holkitt, Margaret e Alice vendettero la casa che alla fine fu abbattuta, poiché nessuno voleva viverci e credo che il terreno su cui sorgeva sia ora un campo di rape. E questo, mio caro, è tutto ciò che vi posso dire.

- Ora, signor O'Donnell - aggiunse Miss Macdonald - avendo ascoltato le nostre esperienze, quella di mia madre e la mia, qual è la vostra opinione? Pensate che il fenomeno della candela fosse in qualche modo connesso con la danza che entrambi abbiamo visto o le presenze della Old White House siano completamente separate da quella della strada?


Con questa domanda senza risposta termina il primo resoconto sulle storie scozzesi di fantasmi.

Testo tratto da Scottish Ghost Stories di Elliott O'Donnell, KEGAN PAUL - TRENCH - TRÜBNER & CO. LTD, Londra. Testo originale inglese in pubblico dominio, traduzione italiana © 2013 Gianluca Turconi.

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