Vendetta

di Giacomo Colossi

Nessuno ci vendicherà:
la nostra pena non ha testimoni.
(Peppino Impastato)


La macchina correva silenziosa sull'autostrada. Avevo tempo per pensare e per fermarmi un giorno lungo il percorso che mi avrebbe portato a sud.

Il sole era alto e faceva molto caldo. Era un maggio con caldo africano costante. Le previsioni davano quarantacinque gradi per tutta la settimana.

Avevo preso un permesso di quattro giorni. Non ne avevo mai chiesto uno in trent'anni di lavoro e nessuno mi aveva contestato nulla. Solo il mio capo mi aveva detto se era successo qualcosa. Gli avevo risposto di no, che tutto andava bene ma che dovevo sbrigare delle faccende personali circa l'eredità di mio padre, morto da un anno. Gli avevo stretto la mano e me ne ero andato. Un buon uomo, il mio datore di lavoro, un po' ingenuo.

La Toyota che avevo noleggiato sorpassò un paio di TIR con motore a idrogeno e pensai, per l'ennesima volta, che stavo aspettando questo momento da venticinque anni. E ora che era arrivato non avevo cambiato idea. Anni prima mi ero detto che non lo avrei fatto, che probabilmente mi sarei rammollito. Invece no. Il mio odio era cresciuto col trascorrere degli anni ed era esploso dopo l'ultima sentenza, legata a un ricorso in Cassazione a Berlino. La legge non era mai stata uguale per tutti e i carnefici ne beneficiavano spesso.

Non avevo deciso se fare la Cisa o la variante di valico, o se prendere il tunnel di Piacenza, che mi avrebbe portato in poche ore oltre Napoli. Decisi in un autogrill, tra un caffè e una mezza brioches, di passare da Passo Cisa e scendere poi in Toscana. Tra statali ed autostrade avrei raggiunto la mia meta: Reggio Calabria.

Passo Cisa mi ricordava anni addietro, quando andavo al mare con mia figlia e due sue amiche. Si divertivano in quel campeggio dove andavamo sempre. Erano serene, nuotavano, giravano in bicicletta, vedevano film e passavano le serate a raccontarsi tutto. Frequentavano il liceo scientifico russo, classi diverse, età diverse ma di poco. Paola era la più piccola, mia figlia, sedici anni.

E' stato l'ultimo anno che ha visto il mare. E' stata la sua ultima estate. E' stato il mio ultimo mese da persona normale. Dopo la sparatoria in cui Paola è morta, insieme ad altre due persone, tutto è cambiato. Me ne sono andato a vivere da solo e ho lasciato Lucia. Il dolore aveva vinto.

Il giorno in cui tutto precipitò in un turbine buio e senza fondo ero in Università. Stavo rileggendo una tesi di una mia laureanda. Parlava della possibilità di superare la relatività di Einstein prendendo in considerazione alcune ipotesi sempre scartate dal mondo accademico. Io avevo accettato il suo lavoro perché anarchico, come me, perché non accettavo la chiusura mentale a priori di molti miei colleghi, e della gente superficiale in genere.

Quel giorno, in un centro commerciale, un affiliato della mafia russa spedito al nord, a Milano, da politici corrotti intoccabile, decise di chiudere i conti con un tizio scomodo. Lo aspettò fuori nel parcheggio e appena lo vide gli sparò con un vecchio AK-47. Il tizio venne preso in faccia e il suo cervello schizzò sull'asfalto e sulle automobili parcheggiate intorno. Altri colpi viaggiarono in solitaria e incontrarono mia figlia. Uno di loro la colpì al cuore. Smise di battere. Paola cadde all'indietro con gli occhi aperti e il suo pensiero, immagino io, incominciò a chiedersi cosa fosse accaduto, che cosa le stesse accadendo. Non poteva muoversi, non poteva respirare, sentiva dolore.

E' scientificamente provato che quando il cuore smette di battere non muori subito e il cervello vive ancora per altri interminabili minuti, dieci, quindici, venti, o più. Tu sei vivo e senti tutto! Ed intanto tu che stai morendo sei come quello che finisce nelle sabbie mobili, e scendi lentamente, verso non so cosa, verso il freddo glaciale della fine del tutto, o l'inizio di qualcosa. E sei consapevole che stai morendo, ma non sai dove stai andando. Senza parlare della sofferenza che senti, del terrore che ti avvolge, che ti uccide altre cento volte. Orrendo!

Ogni volta che penso alla fine di mia figlia sento odio per la persona che l'ha uccisa e penso alla mia fine, penso a quando verrà e spero che arrivi presto. Sono un codardo e non sono stato capace di darmi la morte, anche se ci ho pensato infinite volte. Ho paura del dolore, e dell'ignoto. Volevo morire per incontrarla, da qualche parte. Io sono ateo. Non so come conciliare questi due opposti.

Il web parlò di quel giorno per settimane. Il mafioso Nirikov, affiliato della famiglia Rasmush di Vladivostock che controllava la diffusione della nuova metanfetamina-mk sulle colonie lunari, venne catturato dopo dieci giorni di latitanza, processato e condannato all'ergastolo. Venne rinchiuso nel carcere orbitale cinese di massima sicurezza di Castelgrazh, inizialmente.

Io venni intervistato da televisioni e giornali e radio, ma le mie condizioni erano talmente alterate psichicamente, dai farmaci e dalle droghe che avevo cominciato ad assumere, che nelle interviste sembravo un buon uomo cattolico che accettava il destino voluto da Dio.

Lo sapeva bene il mio ai-psichiatra che mi seguiva da molto prima che iniziasse il processo a Nirikov. Mi diceva che dovevo superare il lutto, mi indicava tutte le strade, tutte le medicine da prendere, anche le droghe legali e illegali, e io facevo tutto quello che mi suggeriva, ma l'odio per quella persona, per quell'animale che aveva fermato la vita di mia figlia, mi stava portando da un'altra parte.

Il mio nuovo stato alterato mi aveva allontanato da mia moglie, dai miei amici, dai pochi parenti che avevo. Mi aveva fatto perdere il lavoro all'Università. Ora vivevo con i pochi risparmi che avevo e con la liquidazione chiesta con quindici anni di anticipo. Mi bastavano quei soldi. Vivevo in un bilocale in una torre popolare del centro di Milano. Il lavoro di professore universitario lo avevo lasciato per diventare un esperto informatico in una ditta che produceva algoritmi intelligenti per cyborg umanoidi. Un lavoro che facevo solo per vivere, per fare qualche soldo.

La verità è che non avrei mai pensato di arrivare a odiare così tanto una persona. L'odio è un sentimento che non avevo mai provato, e in me aveva raggiunto apici enormi. Le mie idee politiche sono sempre state le stesse da anni. Sono un mezzo anarchico, voto le sinistre, quando voto, quando l'Unione Oligarchica Russo-Europea ci permette di votare, ma non pensavo che il cancro dell'odio mi avrebbe eroso l'anima. Non pensavo che avrei organizzato la mia vita per il giorno in cui io avrei potuto uccidere.

Per organizzare il tutto dovevo imparare tante cose. Dovevo diventare invisibile, un uomo qualunque, anche se conosciuto, per ciò che era accaduto. Dovevo apparire come un uomo mite, triste e innocuo. Così mi avevano descritto al processo anni prima, così mi aveva detto di apparire la mia intelligenza artificiale che mi analizzava il cervello ogni settimana, ma io non ero che una bomba pronta a esplodere, e AI lo sapeva bene, ma era mia e nessuno poteva decriptarla.

Accettai dunque le definizioni dei giudici, le feci mie e mi dedicai a costruirmi una maschera pirandelliana perfetta per il mio caso. Credo di esserci riuscito perfettamente.

***

Dopo aver lasciato l'Università tra mille interferenze da parte di colleghi, amici, studenti che mi volevano bene e mi volevano lì a insegnare Fisica Quantistica e Relatività, feci un viaggio di quasi un anno, un viaggio che mi servì per capire cosa avrei dovuto diventare, che cosa avrei fatto al momento opportuno, come lo avrei fatto se mai fosse giunto quel momento.

A Buenos Aires conobbi una donna, una giornalista che sapeva tutto della mia storia. In quella città immensa ci rimasi tre settimane e con Rosa ci frequentammo due settimane, tutti i giorni, e anche le notti. Una passione improvvisa, inaspettata, che mi sconvolse. Non dissi nulla del mio tormento e della mia attesa per colpire il mostro che aveva ucciso mia figlia, ma lei intuì, capì che io ero solo un uomo che si nascondeva e che non voleva dimenticare e svelarsi.

Mi disse, l'ultimo giorno prima che partissi per Lima, che dimenticare significava ricominciare e che se io non l'avessi fatto avrei solo sprecato la mia vita, l'avrei buttata via per sempre. Mi disse che già quel giorno io stavo rinunciando a lei, a una possibile nuova vita con una persona che forse lo amava, che voleva stare con lui. Io non dissi nulla. Le strinsi una mano, le sorrisi, col mio solito sorriso triste, le diedi un bacio sulla bocca e mi avviai al gate dell'aeroporto.

Lo SpaceX 04 mi attendeva per il decollo.

***

La strada della Cisa mi piace. Il paesaggio in alcuni punti è ancora selvaggio e ricalca il mio stato d'animo attuale. Queste vallate le hanno lasciate intatte, nonostante l'arrivo in massa di milioni di profughi. Non hanno costruito qui, ma nelle grandi città, come nel resto dell'Unione. La guerra atomica del nord Africa ha ucciso centinaia di milioni di persone, e ne ha fatte smuovere altrettante. Qualcuno ha cercato di fermarli, uccidendoli, ma le NU hanno infine imposto a tutto il mondo civilizzato di prenderseli in carico. Nessuno li ha più fermati. Il posto più vicino era l'Unione e poi da qui molti sono stati mandati sulle colonie lunari. Di fatto la Luna la stanno colonizzando i profughi.

Ho deciso che mi fermerò a Massa Marittima, per mangiare e dormire. In quella cittadina toscana mia figlia festeggiò il suo dodicesimo compleanno. Eravamo in un hotel, a pochi passi dalla Cattedrale di San Cerbone. Paola si era portata un'amica ed eravamo andati a mangiare in un agriturismo. Mi ricordo che la sua amica, una con la quale aveva fatto le elementari e poi le medie, le aveva regalato un diario. A Paola piaceva scrivere e già quella stessa sera annotò quanto fosse stata bella la giornata.

Unica nube oscura della serata una donna anziana, che durante il taglio della torta, scrisse Paola, era passata accanto a lei e l'aveva guardata con un viso tristissimo, e aveva scosso la testa più volte, e le aveva sussurrato di non preoccuparsi del futuro, perché non sarebbe mai arrivato.

Paola lo disse alla sua amica, ma soprattutto lo scrisse nel diario e ne parlò con me. Io dissi semplicemente che di persone pazze la Terra ne era piena e Paola mi freddò dicendo che forse quella donna era la morte e le stava dicendo qualcosa. Le stava parlando del suo futuro. Io, usando tutta la logica di cui disponevo, riuscii a convincerla che quell'episodio era stato solo un errore, un passaggio di follia all'interno di un momento di gioia. Paola mi abbracciò e disse che avevo ragione, che gli scienziati come me non potevano sbagliare mai.

Vorrei incontrare di nuovo quella donna. Vorrei sapere come ha fatto a sapere.

***

A Lima presi casa in un appartamento stile anni settanta in Plaza Mayor. Lo affittai per un mese e ascoltai i Doors, Jimi Hendrix e Janis Joplin. Erano anni che non sentivo le loro canzoni. Erano anni che nessuno le sentiva più.

Non so perché sono andato a Lima, ma avevo sentito parlare del suo strano clima e volevo provarlo, e poi ero curioso di vivere ai piedi delle Ande, in una città dalle mille contraddizioni politiche, sociali e antropologiche, in una città interamente coperta da un tetto di grafene trasparente. Una città marziana.

Mi ci trovai benissimo, e in mezzo a tutta quella gente, ai nativi americani, agli europei bianchi, ai meticci, ai profughi delle centinaia di isole sommerse dall'innalzamento del Pacifico, alle nebbie e al freddo secco di quel posto, provai un po' di pace. E imparai a sparare.

***

Il mio incontro con la pistola, che ora mi porto in automobile, non fu casuale, ma voluto. Una sera, in appartamento, con Hey Joe che fuoriusciva da sei casse digitali e una bottiglia di Rum Solera Gran Reserva del 1998 bevuta a metà, e una canna tra le labbra, chiamai la mia AI, il mio psichiatra donna.

- Ciao, che c'è? - disse lei.

- Dimmi come mi vedi in questo momento. Analizza il mio encefalo, Lia - dissi.

Passarono forse due minuti e Lia si fece risentire.

- Sei sbronzo, sei fumato e sei rilassato. Direi che stai bene! Ma in una zona del tuo cervello ho intravisto qualcosa. Tu, nonostante alcool, fumo e droghe che ti fai ogni giorno, pensi sempre a quella cosa. Naturalmente...

Tirai un po' di fumo e presi un sorso di Rum.

- Cos'hai visto Lia? - chiesi strascicando le parole.

- Stai pensando a come farai ad uccidere Nirikov. Non hai la minima idea di come farai a uccidere quell'uomo. Non sai usare nessuna arma. Non hai mai usato nulla del genere. Quindi, e anticipo la tua domanda che leggo nella tua mente, ti suggerisco di andare in un poligono e imparare a sparare con una pistola. Ti suggerisco anche la pistola: una Beretta Px4 Storm Full. E' un'arma magnifica.

- Mostramela Lia - dissi.

Lia creò un ologramma di fronte ai miei occhi e vidi la pistola che avrei comprato il giorno dopo in un' armeria del centro di Lima.

- Bella... - dissi.

- Sì, ma sei turbato. Non devi. O affronti quello che devi, per liberartene, o lasci andare tutto e ritorni una persona normale. Sì, perché tu ora non lo sei. Tu ora sei solo un malato mentale - mi disse Lia.

Le dissi di andare via e Lia sparì.

AI viveva dentro a un piccolo cubo che avevo appoggiato su una mensola della sala. Pensai alle sue ultime parole e mi dissi che dovevo arrivare fino in fondo, perché Nirikov doveva morire per mano mia.

Il giorno dopo comprai la Beretta e cominciai ad andare a sparare in un poligono. Le ultime tre settimane trascorse a Lima le passai girovagando per la città, tra un bordello e l'altro, e il poligono, aperto ventiquattro ore, sette giorni su sette.

Diventai bravo.

***

A Massa Marittima presi una camera in un hotel molto bello, nel centro storico vicino alla piazza principale. Dalle finestre vedevo le colline e le vallate fino all'orizzonte. Potevo mangiare sul balcone, la radioattività non era alta.

Era magnifico. Ordinai una bottiglia di Montalcino e cibo vegano. Mi accesi una sigaretta a basso contenuto di THC e pensai al giorno dopo. Mi venne spontaneo di guardare nella valigia. Presi una scatola ed estrassi la Beretta grigia e leggera. Inserii un caricatore e misi un colpo in canna. Avvitai il silenziatore e collegai il cannocchiale laser.

Bussarono alla porta. Era la cena.

- Un momento, prego - dissi calmo. Nascosi la pistola nella valigia.

Una bella ragazza con i capelli corvini e gli occhi azzurri entrò con un carrello. Mi chiese dove avrei mangiato e le dissi che avevo scelto il balcone. Mi rispose che era la scelta migliore che potessi fare, che la vista era spettacolare e che il clima si era rinfrescato e i venti avevano ripulito Massa dal plutonio 239.

Mi sedetti su una poltrona di cuoio nero e continuai a fumare. La ragazza mi versò del vino in un grosso calice e me lo portò. La ringraziai. In dieci minuti preparò il mio tavolo, con le pietanze disposte in quattro piatti. Avevo fame.

Quando la ragazza se ne andò estrassi la pistola e andai sul balcone. Potevano vedermi da qualche finestra ma in un angolo a est forse avrei potuto sparare un colpo. Mi avvicinai a un vaso enorme di rose rampicanti bianche e guardai il campanile della chiesa. In basso la piazza era piena di gente, i ristoranti e i bar anche. Presi la pistola con due mani, azionai il mirino laser e appoggiai l'occhio destro. Tutto era enormemente ingrandito e la luce blu del laser la vedevo bene. Mossi il polso e la luce si fermò su una campana. Trattenni un attimo il fiato e sparai. La pistola non fece alcun rumore, ma sentii il tintinnio della campana. Guardai la gente, in basso. Nessuno si era accorto di nulla. Sorrisi. Mi sedetti al tavolo e cominciai a mangiare, la pistola appoggiata su una sedia. Ero pervaso da uno strano senso di esaltazione. Mi sentivo invincibile. Presi del rosso e feci un brindisi a Paola.

***

A Tokyo avevo imparato a come vincere l'ansia. Vi ero rimasto due mesi. In quella metropoli da cui partivano i traghetti per la Luna incontrai una maestra di Tai Chi che si prese a cuore la mia situazione. La mia situazione era semplice da spiegare: mi imbottivo di droghe per stare tranquillo e tenevo l'ansia lontano da me, perché mi aveva provocato grossi attacchi di panico e non volevo più caderci, perché mi facevano paura, mi bloccavano, mi rendevano vulnerabile.

Kaede mi insegnò molte cose ma ne volle sapere altre da me, poche a dire il vero. Le bastarono per capire che ero un uomo finito, che stava aspettando un solo momento, per fare una cosa che poi, come mi disse, non mi avrebbe che cambiato in peggio. Mi avrebbe distrutto definitivamente.

Kaede lavorò su di me per quasi un mese, e mi amò, e riuscì a farmi ridurre a un terzo le pasticche che prendevo. Io le avevo detto, prima di partire, che forse tutto sarebbe ritornato come prima, ma lei mi disse solo che dovevo credere in me, che il mio karma mi stava dicendo di cambiare strada, perché se riuscivo a combattere i mostri dell'ansia allora avrei potuto combattere tutto.

Mi ero innamorato di lei, ma non glielo dissi.

***

Il viaggio da Marina di Massa a Reggio Calabria lo feci in due ore e mezza. Il carcere di Arghillà era il posto in cui dovevo essere per le quindici e trenta esatte.

Io ci arrivai tre ore prima. Ebbi il tempo di pranzare all'aperto, sul mare, nonostante l'allarme venti radioattivi in arrivo.

Vladimir era stato trasferito ad Arghillà tre anni prima. Gli avevano condonato quindici anni di carcere per buona condotta. Quando avevo sentito la notizia la mia considerazione per la giustizia dell'Unione era precipitata ai più bassi livelli. Tutti sapevano che le mafie russa e italiana pilotavano le sentenze delle Procure, ma io mi sentii colpito per la seconda volta.

***

Mi trovo qui oggi per farla finita con tutto questo mondo corrotto, con Vladimir Nirikov, con le mafie, la giustizia fasulla, la politica dittatoriale delle multinazionali russo-europee, cinesi e americane.

Mi trovo qui oggi per uccidere e per essere ucciso. Perché è così che andrà.

Alle quindici e trenta lui uscirà dal carcere ed io lo ucciderò, insieme a chiunque gli stia vicino. La pistola è a posto. Ho tre caricatori di riserva e uno inserito, il colpo già in canna. Ho parcheggiato la Toyota a cinquanta metri dal cancello da dove uscirà l'uomo che ha ucciso mia figlia.

Alle tre e mezza i cancelli si aprono. Un SUV BMW nero a idrogeno si avvicina e parcheggia, trenta metri davanti a me.

Qualcuno che lo viene a prelevare - penso freddamente.

Tre minuti dopo Nirikov esce, con uno zaino in spalla, e si dirige verso la BMW.

E' invecchiato, è calvo e magro, si muove piano. La faccia triste e pallida.

Scendo dalla macchina e mi dirigo verso di lui, la mano sulla Beretta, infilata nei jeans, dietro, e nascosta dal mio giubbotto di pelle nera.

Il vento radioattivo è già arrivato. Su Reggio Calabria le sirene ululano.

Dal SUV scendono velocemente quattro persone armate di mitragliette. Due mi vengono incontro, altre due vanno verso Nirikov.

Io estraggo la Beretta e la punto verso i due che mi stanno venendo incontro. Loro non alzano le mitragliette su di me ma si guardano e si fermano.

- Quell'uomo è mio! - urlo.

Nirikov mi guarda, mi riconosce e abbassa la testa.

Dal SUV esce una quinta persona. Camicia grigia e cravatta nera. Occhiali scuri. Minigonna di pelle nera. Tacco dodici. Capelli neri lisci lunghi e sciolti. Viene verso di me e fa dei segni agli altri quattro uomini.

Cammina veloce e io ho sempre la pistola puntata contro Nirikov. Si ferma a tre metri da me e si toglie gli occhiali. Occhi verdi, carnagione candida, alta, mani da pianista e da sicario. Una donna splendida.

- So che aspetta questo momento da anni - mi dice con leggero accento russo.

- Io personalmente la comprendo, ma il lavoro lo faremo noi.

Non so cosa dire, guardo Nirikov che viene preso in consegna dai due uomini che gli erano andati incontro. Prima di entrare nel SUV Nirikov mi guarda di nuovo, cerca di dire qualcosa ma viene spinto nella macchina.

- Chi siete? - chiedo alla donna abbassando la pistola. Ho rabbia dentro.

- Perché non lo avete ucciso in carcere!

La donna guarda il cielo e dice:

- Il carcere se lo meritava. La radioattività è già oltre i limiti. Dobbiamo andare. Lei sa chi siamo. Noi abbiamo commesso un errore. Sul suo conto in banca le abbiamo depositato cento milioni di euro. Lo so che non valgono un sorriso della sua Paola. Ma li può spendere vivendo sulle colonie orbitali ricche. L'abbiamo seguita fin dal processo. Era chiaro che avrebbe voluto uccidere Nirikov. Ma lo faremo noi. Si metta l'anima in pace. Ne ha bisogno.

Dimenticare significa ricominciare.

***

Le parole della donna russa che mi diceva di trovare pace mi resteranno scolpite dentro, sempre.

A Shinjuku ci arrivai un mese dopo.

Ero distrutto. Non riuscivo a guarire.

Sapevo dove abitava.

Presi l'ascensore e salii al centotrentesimo piano. Suonai alla sua porta alle tre di notte.

Non sapevo nemmeno se fosse lì ma dopo due minuti Kaede aprì la porta.

Ci guardammo e le dissi che avevo bisogno di lei.

Lei mi abbracciò e mi fece entrare.

In lontananza, guardando dalla finestra del suo appartamento, una navetta stava atterrando.

Sentivo il profumo di gelsomino dei suoi capelli.

Lei mi prese il viso tra le mani e mi disse che mi stava aspettando.

Disse anche che non mi avrebbe più lasciato andare via.

Chiuse la porta e tutto si chiuse dietro di me.

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